Caro direttore,
il leader del Pd, Enrico Letta, ha detto che la condanna dell’ex sindaco “dem” di Riace, Mimmo Lucano, “mina la fiducia nella magistratura”. Quando lo hanno detto Silvio Berlusconi o Matteo Salvini il Pd li ha bollati al minimo come “eversivi”: che non lo accetti il leader del grande partito della sinistra democratica – candidato domani a Siena al un seggio parlamentare – appare come minimo un segnale contraddittorio.
Ogni pronuncia giudiziaria può, anzi, in molti casi deve essere discussa in chiave “storica” (lo ha raccomandato giusto ieri un giurista della massima levatura come Natalino Irti). Pochi giorni fa il confronto si è acceso sulla nuova “verità processuale” scritta dai giudici di appello di Palermo sulla cosiddetta “trattativa Stato-mafia”. Quale riflessione “storica” suggerisce ora la condanna di Lucano, al di là delle polemiche a orologeria mediatica sulla giustizia a orologeria politica?
Chi scrive conta di non essere frainteso: lo chiede all’ex sindaco di Riace e all’ex ministro dell’Interno, Marco Minniti, lui pure calabrese ed esponente del Pd; e ovviamente ai magistrati di Locri che hanno duramente condannato in primo grado Lucano per vari reati amministrativi legati anche all’accoglienza dei migranti. La premessa è utile a una riflessione: l’azione dell’ex sindaco sembra presentare alcuni indizi per essere essere ricondotta agli sviluppi reali del cosiddetto “piano Minniti”.
Appena arrivato al Viminale, con il governo Gentiloni, Minniti si trovò ad affrontare un boom di sbarchi incontrollati in Italia di migranti dalle coste libiche. Lo fece sul piano politico interno, varando nuove regole che andarono a canalizzare sul piano burocratico l’accesso dei migranti in Italia, facilitando fra l’altro il rimpatrio di coloro che non presentavano i requisiti per l’accoglienza (allineando così l’Italia alla posizione degli altri Paesi Ue sui cosiddetti “migranti economici”).
Sul piano diplomatico, nel luglio 2017 Minniti presentò al consiglio Ue dei ministri dell’Interno una piattaforma che andava a ridimensionare il ruolo dell’Italia nell’operazione Frontex, ponendo limiti all’attività delle Ong (soprattutto non italiane) e prospettando un ritorno al ruolo attivo delle autorità libiche nel controllo delle loro acque territoriali. Nei fatti – al di là degli accordi formali di cooperazione via via firmati – diverse ricostruzioni hanno accreditato in quella fase contatti diretti con i leader delle milizie tribali che si spartiscono il controllo del territorio libico – e quindi anche dei flussi dei migranti provenienti dall’intero continente africano – dopo il crollo del regime di Gheddafi.
Il piano Minniti produsse i risultati che si era prefisso: gli sbarchi decrebbero in misura significativa e ripresero solo quando, nel giugno 2018, al Viminale si insediò il neo-vicepremier Matteo Salvini (mentre la delega ai servizi di intelligence passò al neo-premier Giuseppe Conte). Non si può tuttavia affatto escludere che fra gli sviluppi reali del piano Minniti – ovviamente molto diversi e ben distinti dagli obiettivi di governo e dalla responsabilità politica del Viminale – siano rientrate anche forme di “riorganizzazione” della gestione degli sbarchi sulle coste calabresi. Una dinamica che per certi versi sarebbe stata speculare al “cambio di gestione” delle partenze sulle coste libiche.
Vedremo ora se una sentenza di secondo grado confermerà o riscriverà la verità giudiziaria sul caso Lucano. Di certo, sul piano “storico”, difficilmente lo si potrà accusare di non aver affondato le mani in una realtà di estrema emergenza sociale (è l’accusa che nessuno ha infatti mai rivolto contro Minniti, da nessun settore dell’arco costituzionale). È più imputabile – di ipocrisia strumentale – chi ha trasformato Lucano in un’icona ideologica, quando invece il sindaco di Riace, nei fatti, ha tenuto aperta la sua cittadina ai migranti. Con i mezzi che offriva la realtà. Punto.
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