Sono diversi i motivi di sconcerto leggendo la notizia che riguarda una madre che in seguito alla sua seconda maternità, subisce vessazioni che la spingano a dimettersi: “Non dovevi fare un altro figlio, ora al lavoro ti faremo morire”.
Sicuramente colpisce il comportamento aziendale palesemente lesivo dei diritti del lavoratore, in questo caso di una donna “colpevole” di aver messo al mondo il secondo figlio. E su questa pista, di violazioni a livello giuridico pare di poterne ravvisare un nutrito elenco, dal tentativo di estorcere le dimissioni prima del rientro al lavoro all’escalation di comportamenti tesi a esasperare la neomamma non appena si è presentata in azienda per riprendere il suo posto. Su questo fronte la giustizia farà il suo corso e il sindacato, cui si è rivolta la dipendente bistrattata, procederà per tutelare il rispetto dei diritti e ristabilire equità.
Chiara (così viene citata la signora), che non ha perso la grinta per difendersi, ha comunque espresso disagio e amarezza per quanto accaduto: “E’ tutto molto frustrante – ha ammesso – ma io vado avanti perché so di avere ragione”. E la ragione sembra proprio dalla sua parte stando a quanto è emerso: non sembrano esserci dubbi sull’epilogo dell’increscioso episodio denunciato. In proposito, il segretario regionale della Cgil, Daniele Gazzoli, riferendo dati significativi dell’Ufficio vertenze della Cgil in Lombardia dal 2018 e nei primi sei mesi del 2019, ha segnalato un numero impressionante di violazioni contrattuali: ben 2.757, di cui 1.623 licenziamenti illegittimi.
Il caso di Chiara tuttavia sembra porre all’attenzione una problematica ben oltre la natura economica e giuridica dell’accaduto.
Non sfugge il tipo di accusa rivolta alla donna, pesantemente colpevolizzata fin dal momento della comunicazione della gravidanza e sottoposta a una serie di minacce e angherie anche in seguito: dopo aver rifiutato la proposta di buonuscita che l’avrebbe portata alle dimissioni, riprendendo regolarmente il lavoro la dipendente è stata destituita dal proprio ruolo di responsabilità e relegata a fare fotocopie, subendo una serie di umiliazioni avvilenti anche da parte dei colleghi.
Sorvoliamo sui metodi raccapriccianti, se si pensa che a subire i maltrattamenti psicologici è una donna che sta vivendo la seconda maternità e si suppone abbia un carico familiare impegnativo da conciliare con quello lavorativo. Ma in questa vicenda la grettezza mentale si rileva anche oltre gli aspetti emotivamente più coinvolgenti che producono immediata ribellione e rigetto.
Il caso succede in Lombardia, regione dalla tradizione imprenditoriale consolidata e – forse ci si illude di poter presumere – illuminata, se non d’avanguardia. Tanto per capirsi, le politiche di Welfare aziendale in questa area sono argomento persino inflazionato. Ma questo tristissimo caso apre invece uno spaccato preoccupante, ponendo all’attenzione logiche gestionali non soltanto brutalmente rozze, oltre che illegali, mettendo in luce una totale mancanza di motivazioni e di prospettive che trascendano profitti e convenienze relative unicamente a una circoscritta realtà aziendale. Quale imprenditore oggi può mantenere una visione ancorata soltanto al proprio tentativo d’impresa?
Intervistando un imprenditore in provincia di Como già un paio d’anni fa, fra le varie questioni era affiorata una convinzione lucida: “Non è possibile concepire un’impresa senza porre l’interrogativo sul futuro del nostro mondo, della società in cui viviamo”, aveva notato mettendo in programma fra le priorità, anche un’adeguata strategia per contrastare la denatalità considerata allarmante. La produttività della sua azienda, decisamente di successo, era riscontrabile, sempre secondo un’ottica tutt’altro che ristretta e letteralmente avveniristica, anche nei dati relativi al numero di matrimoni dei dipendenti e alla nascita di bambini.
Non è solo un aneddoto, ma corrisponde a una realtà documentabile. Che ripropone un nesso essenziale fra lavoro, produzione, società. Ma soprattutto promette di contrastare un mondo che rischia di ritrovarsi più misero e alienato.