Dopo il Grand Prix du Festival ricevuto nel lontano 1951 ex aequo con La notte del piacere di Alf Sjöberg – l’equivalente dell’attuale Palme d’Or, creata solo nel 1955 – al termine della 4ª edizione della kermesse di Cannes e in attesa dell’anteprima italiana che si terrà in occasione della 33ª edizione de Il Cinema Ritrovato in programma a Bologna dal 22 al 30 giugno, la selezione ufficiale della sezione “Cannes Classics” nell’ambito del Festival in corso sulla Croisette propone oggi, sabato 18 maggio, alle ore 13.30 in salle Buñuel, la prima assoluta della proiezione di Miracolo a Milano di Vittorio De Sica nella versione restaurata dalla Fondazione Cineteca di Bologna e Compass Film, in collaborazione con Mediaset, Infinity TV, Artur Cohn, Films sans Frontières e Variety Communications presso L’Immagine Ritrovata, che ne ha curato la scansione e il restauro in 4K a partire dai negativi originali in 35mm e dal controtipo positivo d’epoca (sotto la supervisione del direttore della fotografia Luca Bigazzi, vincitore di ben sette David di Donatello e di altrettanti Nastri d’argento per la categoria).
Il lungometraggio – che nella più che trentennale filmografia registica desichiana si inserisce tra altri due capolavori, Ladri di biciclette (1948) e Umberto D. (1952) – è tratto dal romanzo “Totò il buono” (1943) di Cesare Zavattini, che ha firmato la sceneggiatura con lo stesso De Sica (in questo caso pure con la collaborazione di Suso Cecchi d’Amico, Mario Chiari e Adolfo Franci). Curiosamente, questo racconto di genere fiabesco – scritto in pieno conflitto mondiale e pubblicato in otto puntate già nel 1942 sul settimanale “Tempo” – era stato originariamente pensato dal suo autore per il vero Totò, il “principe della risata” Antonio de Curtis.
Girato alla periferia di Milano (più precisamente all’Ortica di Lambrate) con un cast formato sia da attori professionisti che da non professionisti, il film segue le vicende di Totò, rinvenuto sotto i cavoli del proprio orto e allevato da una vecchietta di nome Lolotta, affidato a un orfanotrofio alla morte di lei, uscitone già giovanotto dalla spontanea bontà che crede in un mondo giusto e poi finito a vivere accampato con un gruppo di barboni in un piccolo “paese” – con tanto di vie e piazze – fatto di cubi di legno e lamiera aggiustati alla bell’e meglio sul limitare della città. Fino al giorno in cui, da un buco praticato nel terreno in occasione di una festa, non iniziano a zampillare getti di petrolio più o meno vistosi che fanno accorrere su autovetture di lusso, ben stretti nei loro cappotti impellicciati, i proprietari dell’appezzamento, accompagnati dalle forze dell’ordine che hanno il compito di iniziare lo sgombero dei poveri baraccati il cui “inno” torna pure nel celebre finale a cavallo delle scope degli spazzini di piazza Duomo (omaggiato anche da Spielberg in E.T. – L’extra-terrestre, 1982): «Ci basta una capanna per vivere e dormir. Ci basta un po’ di terra, per vivere e morir. Chiediamo un paio di scarpe, le calze e un po’ di pan. A queste condizioni crederemo nel doman. A queste condizioni crederemo nel doman».
Una pur poetica sequenza che però non rispecchia la chiusura della pellicola immaginata dai suoi autori ma mai girata: come ha raccontato De Sica, «[i] poveri non andavano in cielo ma volando a cavallo delle scope passavano l’Oceano, planavano verso l’Argentina e quando stavano per atterrare leggevano un cartello “proprietà privata”. Allora continuavano a girare, andavano in America e anche qui “proprietà privata”; e così dappertutto. Era questo il finale vero ma non lo hanno voluto, come non hanno voluto il titolo I poveri disturbano». In tempi a noi più vicini, Goffredo Fofi ha avuto occasione di ricordare che «[n]onostante Umberto D. e Il tetto, venuti dopo, che sono i film dove l’idea zavattiniana del neorealismo si fa più rigorosa e sembra travolgere le stesse intenzioni desichiane, Miracolo a Milano – un film certamente di passaggio e in qualche modo di crisi del modello neorealista che incrocia su quest’impervio terreno altri percorsi, per esempio quelli del Rossellini più libero e del primo Fellini – è una fiaba che, come le grandi fiabe del passato, resiste benissimo all’assalto del tempo e delle mode. E continua ad avere molto da dire, se ci si ferma a pensare ai ricchi e ai poveri di oggi».
Davvero una bella sintesi di quello che erano e restano lo specifico periodo storico-artistico di appartenenza e l’alto valore sociale di questo «tentativo di portare lo stile neorealista a tutte le forme di spettacolo» (De Sica) che da oggi pomeriggio torna finalmente a nuova vita non solo per la ristretta cerchia degli appassionati (se non del grande schermo, perlomeno del grande Cinema), ma anche per il più vasto pubblico.