Mirko Rossi poteva salvarsi? A domandarselo sono state Le Iene, che nella puntata di lunedì 7 marzo hanno dedicato un servizio al sergente maggiore morto a 41 anni nel 2017 durante un lancio di esercitazione col paracadute a Guidonia, in provincia di Roma. La Procura vorrebbe archiviare il caso escludendo eventuali responsabilità per l’incidente, sostenendo che la vittima stessa abbia commesso delle imprudenze, ma la vedova Isabella Antonacci si oppone, sostenendo che ci siano delle prove del fatto che alcuni elementi non sono stati chiariti.



“Quando sono arrivata a Guidonia, ho avuto subito la sensazione che mi stessero nascondendo qualcosa. Inizialmente, in modo informale, mi dissero che aveva perso un guanto, poi che aveva avuto un problema col casco. Infine, che si era distratto e che era stato accecato dal sole, ma quel giorno c’erano le nuvole”, racconta la donna. La perizia della Procura invece sostiene che Mirko Rossi sarebbe morto perché avrebbe aperto la visiera del casco per motivi non precisati e che lo spostamento d’aria lo avrebbe disorientato, facendolo precipitare. “Mio marito era uno dei più bravi nell’Aeronautica, era un paracadutista esperto e sapeva che volare non era pericoloso se fatto nel modo giusto”, sostiene la moglie.



Mirko Rossi poteva salvarsi? La manovra Taricone e i mancati soccorsi

Isabella Antonacci racconta inoltre che negli ambienti dell’aeronautica si vocifera che il marito avrebbe compiuto la manovra che portò alla morte anche Pietro Taricone, che è molto pericolosa. “Non lo avrebbe mai fatto, diceva ‘se fai quella mossa, muori’”. La donna non crede a questa versione, che viene smentita anche dal video integrale registrato dalla telecamera fissa del campo di addestramento nel giorno dell’incidente, inviato anonimamente alla vedova a distanza di tre anni dal dramma. La verità sul caso, in base alle immagini consegnate successivamente alla Procura, che ha disposto indagini suppletive, sembrerebbe essere molto diversa.



Mirko Rossi poteva probabilmente salvarsi. I medici, infatti, non arrivarono sul posto subito dopo l’incidente. “Mio marito non è morto per i traumi derivanti dalla caduta, ma per arresto cardiaco dovuto all’omissione di soccorso. Il medico militare era impegnato in una telefonata personale. Avrebbe potuto rianimarlo”. L’ambulanza sarebbe infatti arrivata sul posto con a bordo con soli due infermieri. I primi a praticare al paracadutista le manovre di rianimazione, a distanza di circa venti minuti dall’incidente, sarebbero stati i medici arrivati con l’elisoccorso. “Se fosse stato soccorso nei tempi previsti, all’82% dei casi sarebbe sopravvissuto senza conseguenze gravi”. La famiglia adesso chiede un risarcimento.