Il 6 agosto scorso, secondo uno dei più antichi principi della guerra, l’esercito ucraino ha attaccato un obiettivo che i russi non difendevano, anche se oggettivamente non aveva grande importanza strategica, ovvero la regione di Kursk. Nella facile avanzata gli ucraini hanno occupato quasi senza sforzo circa 1.500 kmq di territorio privo di fortificazioni e con bassissima densità di forze sul campo, tutte composte da militari di leva, senza artiglieria. Il territorio equivale a circa un trentesimo della provincia  di Kursk, un punto nella mappa della Russia. Per l’operazione gli ucraini hanno impiegato le ultime brigate ben armate e ben addestrate di cui disponevano distogliendole dal fronte del Donetsk. I russi l’hanno presa con calma, ci hanno messo un mese per portare nel Kursk i necessari pezzi di artiglieria mediante ferrovia ed ora stanno rispondendo a modo loro. Logorano gli ucraini a cannonate come a Bakhmut.



Prescindendo dagli sviluppi tattici, a distanza di sei settimane in molti si chiedono il motivo, il vantaggio strategico di conquistare una landa semi-deserta distogliendo le ultime forze valide in grado di contrastare la continua e costante avanzata russa sul fronte più importante, quello del Donbass. Allo stesso modo in molti, specie tra gli esperti nostrani, hanno avanzato le loro ipotesi e quella più accreditata è stata che si voleva, fantasiosamente, barattare le aree conquistate con quelle in mano ai russi. Anche chi scrive in un primo momento aveva pensato che l’obiettivo fosse il controllo dello snodo del metanodotto di Sudzha. Ma a distanza di tempo le cose si fanno più chiare, la connessione con altri fatti accaduti va effettuata con un’altra ottica.



L’aggressione del territorio sovrano russo con il supporto informativo e organizzativo di alleati Nato è il primo fatto. Una importante linea rossa è stata superata. Ma non è bastato, e ora Zelensky chiede a gran voce di poter utilizzare missili a lungo raggio, i famosi Atacms americani e Storm Shadow inglesi per colpire la Russia in profondità. Zelensky sostiene che i danni provocati dai missili in profondità alzerebbero il livello dello scontro e il maggior pericolo porterebbe i russi al tavolo delle trattative di pace. Gli alleati dal canto loro non sanno cosa fare; tentennano e ancora non hanno deciso. Solo Italia e Germania sono apertamente contrari. Dopo la pantomima degli Abrams, degli F16 e di tutte le armi che gli occidentali dovevano fornire all’Ucraina e che dovevano risolvere il conflitto, in molti ritengono che una manciata di missili – pochi sarebbero quelli disponibili negli arsenali degli alleati – sarebbero irrilevanti, non farebbero la differenza nello svolgimento delle ostilità. Servirebbero anche a poco perché i russi hanno già spostato armi e munizioni fuori del raggio di azione dei missili.



Invece no. Tali armi volano supportate da una trentina di satelliti ad uso militare della Nato con codificazione molto sicura e segnale molto preciso. I missili sarebbero obbligatoriamente gestiti e guidati dagli apparati Nato. L’Ucraina diventerebbe solo la rampa di lancio per quelle armi, destinate al territorio russo. Se accadesse, come la prenderebbe Putin? Sarebbe l’ultima e più pericolosa, forse fatale, linea rossa di coinvolgimento Nato nella guerra ucraina.

Da ultimo le elezioni americane sono molto vicine, con l’offensiva del Kursk ancora in atto Kiev cerca di impedire il disimpegno occidentale. Con l’utilizzo dei missili a lungo raggio Zelensky vuole portare la Nato in guerra con la Russia, oltre il punto di non ritorno prima che l’insediamento del nuovo presidente Usa, magari proprio Trump, chiuda i giochi di guerra. Prima che l’occidente si smarchi, come ha fatto tante volte, l’ultima in Afghanistan.

Zelensky, sempre più solo dopo le dimissioni in massa dei suoi ministri, vuole una guerra totale. Sarebbe l’unica speranza di vita per il suo Paese che è già distrutto. Abbiamo veramente l’intenzione di varcare tale soglia? Forse non è un caso che Biden e Starmer abbiano frenato.

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