Se la prima volta è stato Apollo a dare il nome al programma kennedyano che ha portato l’uomo sulla Luna, per il secondo round non poteva che toccare alla sorella Artemide (più nota come Diana), dea della caccia e una delle tre personificazioni del nostro satellite, quella della Luna crescente (mentre Selene impersonifica la Luna piena ed Ecate quella calante). Ed è stato un crescendo di progetti, di tecnologie, di collaborazioni tecno scientifiche quello che ha portato al primo lancio del programma Artemis: dopo la falsa partenza di lunedì scorso, oggi alle 20:17 (ora italiana) dal John F. Kennedy Space Center (Florida) dovrebbe spiccare il volo – destinazione Luna – lo Space Launch System (SLS), un gigantesco e potente razzo vettore multistadio alto quasi cento metri e con una capacità propulsiva di una volta e mezza quella del Saturn V, il razzo del programma Apollo che 50 anni fa aveva portato nello spazio Eugene Cernan e Harrison Schmitt, gli ultimi due umani che hanno camminato sul suolo lunare.



Questa volta l’astronave Orion, che fra cinque giorni arriverà in orbita attorno alla Luna, viaggia senza equipaggio, ma già alla prossima missione Artemis II ci saranno a bordo degli astronauti che osserveranno la superficie lunare orbitandole intorno; per poi, con Artemis III, effettuare un allunaggio umano in piena regola, anche se ciò non avverrà prima del 2025.



I viaggi di Artemis saranno comunque ben diversi da quelli di Apollo. Non solo per le nuove tecnologie messe in campo e per gli strumenti a disposizione degli astronauti: si pensi anche solo alle attuali possibilità di comunicazione e a tutte le apparecchiature robotizzate che renderanno più agevole e proficua l’esplorazione di quel nuovo pallido mondo. La diversità è soprattutto per gli obiettivi. Anzitutto gli obiettivi esplorativi potranno far tesoro dei risultati di una serie di missioni scientifiche condotte negli ultimi vent’anni che consentiranno di risolvere alcune incognite che ancora avvolgono il nostro satellite: missioni come le cinesi Chang’e, l’ultima delle quali, nel 2020, ha sbarcato un lander sulla Luna e ha portato a casa circa 2 kg di rocce lunari. O l’indiana Chandrayaan, che ha realizzato una mappatura chimica e mineralogica della superficie lunare. E poi la LRO (Lunar Reconnaissance Orbiter), della Nasa, che ha misurato con precisione il campo gravitazionale lunare e ha raccolto preziose informazioni sulla composizione della crosta e del mantello.



La differenza con il programma Apollo è soprattutto nell’obiettivo più generale, che non si riduce a garantire qualche breve visita alla Luna, bensì punta a una permanenza più duratura e, più ancora, al suo utilizzo come “scalo tecnico” per il più impegnativo viaggio verso Marte. La Nasa parla già di una base permanente – Artemis Base Camp – collocata vicino al polo sud lunare, e di una base orbitante – Lunar Gateway – che smisterà il traffico da e per la Luna. Possiamo immaginare che fra qualche anno le astronavi arrivino ad agganciarsi al Gateway e da lì gli astronauti possano scendere “a terra” con una speciale navetta per poi muoversi sul suolo lunare con una flotta di veicoli appositamente progettati e, ancor più in là nel tempo, ripartire sempre dal Gateway con destinazione Marte.

Altra diversità dalle missioni degli anni 70 è che SLS non porterà nello spazio un solo carico – la capsula Orion che poi ospiterà gli astronauti – bensì una serie di veicoli spaziali secondari, frutto dei più recenti avanzamenti dell’ingegneria aerospaziale. Come i mini satelliti CubeSat, delle dimensioni di una scatola di scarpe, tra i quali Lunar IceCube e LunaH-map appositamente progettati per la ricerca di eventuale acqua sulla Luna; o come BioSentinel che andrà oltre ed effettuerà il primo esperimento di biologia nello spazio profondo, studiando gli effetti dei raggi cosmici e della radiazione solare su cellule di lievito in crescita. O ancora come ArgoMoon, realizzato dall’italiana Argotec e coordinato dall’ASI (Agenzia Spaziale Italiana) che avrà il compito di riprendere dall’esterno le operazioni di SLS e di inviare alla Nasa immagini significative a conferma della corretta esecuzione.

Infine, a differenza dello storico programma Apollo, la gestione di tutta l’impresa non sarà solo made in Usa e non sarà tutto firmato solo col marchio Nasa o con quello delle agenzie nazionali coinvolte. Ci sarà un notevole contributo delle società private che ormai da alcuni anni stanno vedendo lo spazio come un reale business. In primo piano ci sarà la SpaceX di Elon Musk, che ha già vinto, sconfiggendo Jeff Bezos, la gara per realizzare il modulo di allunaggio che farà da saliscendi dal Lunar Gateway.

Ai progressi della Nasa e dei suoi partner privati guardano con interesse altri grandi attori – abbiamo già citato Cina e India – di quella che ormai è nota come la space economy: la Luna potrebbe diventare il palcoscenico di una nuova sfida che non sarà solo la gara per un primato scientifico ma una competizione tecnico-economica globale.  La missione Artemis alza il sipario di questa sfida.

Anche se quella che parte oggi è solo una missione di test, per assicurarsi dell’adeguatezza di tutto il sistema agli ambiziosi obiettivi prima indicati, il suo significato va ben oltre quello di una verifica tecnica di apparecchiature e sistemi automatici: con Artemis si riapre ufficialmente il tema dell’esplorazione diretta umana dei nostri dintorni planetari. Con ciò l’uomo, mentre costruisce e mette in orbita occhi potenti come quelli del telecopio Webb per permetterci di ammirare le immagini delle galassie più lontane, dimostra di non rinunciare a osservare da vicino e a toccare con mano i nostri sobborghi planetari: alcuni lo faranno per tutti noi.

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