Alle 09:54:20 di mercoledì 18 dicembre, dalla base spaziale europea a Kourou (Guyana francese) a bordo di un lanciatore Soyuz-Fregat è partita la missione Cheops dell’Esa (Agenzia spaziale europea). L’obiettivo è chiaro: fare l’identikit degli esopianeti, cioè dei pianeti extra-solari che orbitano attorno ad altre stelle della nostra galassia. Il suo telescopio hi-tech, progettato e realizzato in Italia, nell’arco di tre anni e mezzo prenderà di mira oltre 7mila sistemi solari per misurare con precisione le dimensioni dei pianeti alieni: di molti di questi si conosce già la massa, e quindi si potrà risalire alla loro densità per poi ricavare indizi sulla loro struttura interna, vale a dire capire se sono rocciosi, gassosi o di ghiaccio e valutare se presentano le condizioni di abitabilità.
Una missione come questa ci riporta, per analogia, alle spedizioni successive alla scoperta dell’America, ai tanti navigatori che, dopo Cristoforo Colombo, hanno contribuito a delineare i contorni del nuovo continente e a disegnare le prime mappe dei nuovi territori sconosciuti. In entrambi i casi siamo di fronte a un susseguirsi di alcune fasi che sono tipiche di molte esperienze umane: dapprima c’è l’esplorazione; poi può accadere la scoperta; quindi si passa ad analizzare, descrivere e riconoscere le caratteristiche di ciò che si è scoperto; infine, nel caso di un territorio, si cerca di insediarsi e di adattarlo alle proprie esigenze.
La missione per studiare gli esopianeti è un esempio estremo, reso possibile oggi grazie alle enormi capacità scientifiche e tecnologiche disponibili; ma è un’esperienza che affonda le sue radici e le sue motivazioni in qualcosa che accomuna tutti noi, in un insieme di aspirazioni, desideri, aspettative che sono di tutti.
L’uomo è esploratore: il bambino esplora il suo ambiente, il suo spazio, e noi continuamente indaghiamo la realtà della natura, delle cose, delle persone e anche di noi stessi, che in parte diventiamo oggetto di indagine e quindi contemporaneamente soggetto e oggetto di conoscenza.
Indaghiamo il mondo per il solo fatto che c’è, che lo riceviamo in dono dalla nascita e lo re-incontriamo ogni giorno, forse senza averne piena consapevolezza. Esplorare fa parte della natura dell’uomo e della sua condizione: quella di essere posto dentro un contesto, di vivere circondato da una realtà multiforme e provocante, di imbattersi continuamente in qualcosa d’altro e di subirne il contraccolpo. Il contraccolpo del bello, come spesso è la natura che ci circonda e ci sovrasta; il contraccolpo dell’enigmatico, di tutti gli interrogativi piccoli e grandi che l’esplorazione della realtà suscita e ai quali la ragione si applica nel tentativo, sempre rinnovato, di rintracciare qualche risposta; il contraccolpo anche del grandioso, che arriva fino al terrificante dei fenomeni giganteschi o catastrofici, come gli scontri tra le placche tettoniche che originano i terremoti o le collisioni tra galassie che modificano le profondità celesti.
L’indagine della realtà, che inizia fin da bambini, tende a non finire mai, ad allargare continuamente i confini, ad abbracciare ambiti sempre più ampi di realtà. Un sintomo della vivacità umana è proprio questa sete di allargamento degli spazi di indagine, è la tensione ad andare “oltre”, come se da “oltre” arrivasse una chiamata, un invito. L’attrattiva della realtà è un’esperienza elementare che poco o tanto tutti condividono: “Proprio perché tutto era così bello, nasceva dentro di me un desiderio, sempre lo stesso: doveva esserci qualcosa di ancora più bello. Tutto sembrava dirmi: vieni!” (C. S. Lewis).
Le missioni spaziali esprimono al massimo grado la tensione esplorativa dell’uomo, quell’atteggiamento che ci spinge a superare quelli che sembrerebbero i confini naturali della vicenda umana. Se la superficie del pianeta è stata percorsa in lungo in largo, esplorando in due dimensioni dall’antichità fino alle grandi scoperte geografiche; se scalatori, speleologi e oceanografi hanno percorso la dimensione verticale puntando alle alte vette o sondando le profondità della terra e gli abissi marini; ora, nell’era spaziale, il mondo viene esplorato in tutte le quattro dimensioni: le tre dello spazio della geometria classica più quella temporale.
Ci sono stati uomini che sono usciti dalla sfera di attrazione gravitazionale terrestre; alcuni sono sbarcati su un altro corpo celeste (abbiamo ricordato nel luglio scorso il primo allunaggio umano); altri hanno costruito sonde, come i Voyager, che hanno già oltrepassato la eliosfera, cioè il confine del Sistema Solare e stanno viaggiando negli spazi interstellari; altri ancora hanno messo in orbita satelliti dotati di strumentazione in grado di captare i segnali a microonde emessi circa 13 miliardi di anni fa e quindi testimoni dell’alba del tempo, dei primi passi dell’universo neonato.
Con Cheops che si sta sistemando in orbita a circa 700 km dalla superficie terrestre, c’è tutta l’umanità che protende il suo sguardo verso le stelle come una vedetta sul pennone della nave ammiraglia pronta a lanciare il fatidico grido: “Terra!”.
Un’umanità che si appresta a trarre tutti i vantaggi prodotti dalle ricadute tecnologiche di imprese come questa ma che sa di non poter ridurre solo a queste ricadute il valore della ricerca spaziale.
Dopo una missione così il cosmo sarà più grande, più bello e ancor più misterioso; le stelle saranno più brillanti e risalterà ancor più la funzione che hanno sempre avuto fin dall’antichità: essere degli indicatori, dei segnali per un cammino, dei segni da leggere e interpretare, da cui lasciarsi affascinare e insieme interrogare.