“Tutto si crea, nulla si distrugge” diceva un filosofo greco. In Italia, ce la caviamo sempre con una nuova ditta. In realtà, dovevamo aspettarcelo. Ci era parso subito strano che a fine luglio il Reddito di cittadinanza fosse abolito per i beneficiari considerati “occupabili”, anche perché neanche la Divina Provvidenza sarebbe stata in grado di organizzare per qualche centinaia di migliaia corsi di formazione obbligatori e offrire alle stesse persone un posto di lavoro congruo non rifiutabile pena il ritrovarsi senza il RdC.
C’eravamo caduti tutti, Persino un esperto come Francesco Seghezzi aveva espresso i miei stessi dubbi: “C’è l’illusione – aveva dichiarato a Il Foglio – che basti davvero organizzare per queste persone, che spesso hanno gravissimi problemi sul piano personale, economico e famigliare, un corso di formazione di cinque o sei mesi, credendo che tanto basti a renderle pronte a entrare nel mercato del lavoro.
Ma quand’anche così fosse, davvero saremmo in grado, da gennaio, di offrire questi percorsi formativi a quasi mezzo milione di persone? Coi Centri per l’impiego ancora in fase di ristrutturazione?”. E aveva poi aggiunto: “In una fase economica così complicata, davvero ci si illude che ci siamo così tante imprese, e così in salute, da poter assorbire tutta questa mole di presunti occupabili nel giro di sette mesi?”.
Nulla di tutto questo: il Reddito di cittadinanza muore il 31 luglio (?), ma il 1° settembre nascerà il Mia, che non è il titolo di una canzone d’amore, ma l’acronimo di Misura di inclusione attiva. La ditta riassume in sé le finalità della nuova prestazione: prende le mosse da un’esigenza inclusiva, se capita, anche attraverso il lavoro. Certo, non cambierà soltanto il nome; se la proposta anticipata ieri dal Corriere della Sera verrà approvata, senza modifiche, dal Consiglio dei ministri, muteranno anche altri aspetti del RdC, ma la sostanza resterà la stessa. Si invertiranno solo le finalità, nel senso che il contrasto alla povertà avrà priorità rispetto all’inserimento nel mercato del lavoro.
I beneficiari, al momento della presa in carico, sanno suddivisi, in base alle caratteristiche personali e familiari, in “non occupabili” e “occupabili”. Le famiglie senza persone occupabili dovrebbero prendere un importo più alto e averlo più a lungo (probabilmente i 500 euro attuali); mentre per le famiglie con persone occupabili dovrebbero avere al massimo 375 euro al mese erogabili per un anno contro i 18 mesi delle famiglie povere senza persone occupabili.
Sarà effettuato anche un giro di vite. La stretta dovrebbe arrivare anche sul tetto Isee per avere diritto al sussidio che dovrebbe scendere a 7.200 euro dai 9.360 attuali. E quindi ridurre la platea degli aventi diritto. Vi sarà un maggior rigore anche nelle procedure di riconoscimento della prestazione (con verifiche preventive) e nei controlli. Si sta ancora discutendo sul contributo di 280 euro per l’affitto dell’abitazione, mentre per quanto riguarda l’offerta di lavoro (della durata minima di un mese) sarebbero previsti criteri di congruità legati soprattutto alla mobilità nel territorio.
Nella sua conversazione con Enrico Marro, il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico ha delineato un quadro dei beneficiari del Rdc che potrebbe confortare la riforma allo studio. “Nel complesso il nuovo strumento, diversamente da quanto credono in molti, non si è caratterizzato per staticità, bensì per una forte mobilità. Solo poco più della metà dei percettori sono gli stessi da tre anni: e sono prevalentemente anziani, minori e disabili. Gli altri, invece, in maggioranza – ha proseguito Tridico – escono dal programma dopo il primo ciclo di 18 mesi, con un tasso di sostituzione del 50%, come dimostra un nostro studio dell’ottobre 2022. Si tratta di persone con un grado di vicinanza maggiore al mercato del lavoro e per le quali il Reddito di cittadinanza costituisce un’integrazione temporanea e marginale. I percettori erano 3,9 milioni di persone nel picco della pandemia, sono 2,4 milioni nel 2022. In totale, in 3 anni, hanno ricevuto almeno una mensilità oltre 5 milioni di persone, ovvero 2,2 milioni di famiglie. A fine 2022, ne beneficiano 1,1 milioni di famiglie. Detto in altri termini, su 100 percettori del Rdc, il 66% sono anziani, disabili, minori e persone che non hanno mai lavorato; il 20% lavoratori poveri cui integriamo il reddito; solo il 7% ha trovato lavoro, con o senza l’aiuto dei Centri per l’impiego; il restante 7% prende il Reddito e non lavora e potrebbe essere inserito nel mercato con politiche mirate”.
Secondo il monitoraggio dell’Anpal, del giugno 2022, ha ricordato Marro nel medesimo saggio, i beneficiari del Rdc tenuti alla sottoscrizione del Patto per il lavoro erano solo 660mila, quasi la metà con più di 40 anni d’età, mentre quelli già occupati appena 173mila (il reddito da lavoro è però così basso da far loro ottenere il Rdc). Dei 660mila indirizzati al Patto per il lavoro, ben il 73% non ha avuto un’occupazione negli ultimi tre anni e il 71% ha come titolo di studio al massimo la licenza media inferiore. Solo 280mila (42,5%) sono stati presi in carico dai Centri per l’impiego o avviati a un tirocinio. E alla fine del primo semestre 2022 appena 115mila sono decaduti dal sostegno al reddito perché hanno trovato un lavoro mentre erano percettori del Rdc (che può durare al massimo 18 mesi, rinnovabili dopo un mese di sospensione), ma non si sa se questa occupazione sia stata trovata per proprio conto o grazie ai servizi per l’impiego.
Si tratta di un’esperienza che rivela quella che dovrà essere la principale finalità del Mia: l’inclusione sociale. Mentre l’inserimento al lavoro dovrebbe essere perseguito tenendo conto dei limiti personali e professionali degli stessi “occupabili”, ritenuti tali in base all’età e allo stato di salute (nel senso che non siano né minori, né vecchi né invalidi, loro o i loro famigliari). Assumendo pertanto – come utili – anche brevi esperienze di lavoro. Era questa una delle “proposte” formulate dalla Commissione presieduta da Chiara Saraceno secondo la quale anche la qualità del lavoro che viene offerto dovrebbe considerare “almeno temporaneamente, congrui non solo contratti di lavoro che abbiano una durata minima non inferiore a tre mesi”, ma anche quelli per un tempo più breve, purché non inferiori al mese, “per incoraggiare persone spesso molto distanti dal mercato del lavoro a iniziare a entrarvi e fare esperienza”.
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