Il virus è più veloce della burocrazia, ha detto il capo della protezione civile, Angelo Borrelli. Purtroppo è più veloce anche della politica. Il Governo ha annunciato un secondo intervento per famiglie e imprese, chiamato il decreto di Pasqua, invece sembra che non ci sarà nemmeno a pasquetta. Slitta anche (di qualche giorno?) il decreto per dare liquidità alle imprese. Ieri il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il ministro dell’economia Roberto Gualtieri si sono riuniti insieme a Fabrizio Palermo, amministratore della Cassa depositi e prestiti, per “sciogliere alcuni nodi”, si è detto, il principale dei quali riguarda quale veicolo scegliere come garante: la Cdp o la Sace che assicura le esportazioni e oggi è controllata dalla stessa Cassa.
La questione non è affatto tecnica, ci sono infatti delle divergenze sostanziali. Gualtieri vorrebbe scorporare la Sace per portarla sotto il controllo diretto del Governo, ma il Movimento 5 Stelle si oppone per “non snaturare la Cdp”, o meglio per non ridurne il potenziale visto che i pentastellati hanno voluto farne un loro bastione. Ancora incerta sarebbe anche l’entità del provvedimento: le garanzie dovrebbero coprire il 100% per prestiti fino a 800 mila euro per scendere poi al 90% e all’80%. Secondo l’agenzia Adnkronos, alla fine il Governo potrebbe puntare sul 100% per qualsiasi ammontare. Ma alla vigilia di una misura da tempo annunciata la scelta non è fatta.
Nelle nebbie è il nuovo decreto “cura Italia”. Non si conosce l’ammontare: chi dice 35 chi 40 o 45 miliardi di euro. Ci sono passaggi procedurali da rispettare, perché il Governo deve chiedere il via libera del Parlamento all’aumento del deficit pubblico, ma il fatto è che non si sa a tutt’oggi se l’incremento sarà di un punto e mezzo oppure, di due punti del Pil o ancora di più. Quindi non è chiaro quante risorse saranno messe in campo, come e per che cosa in modo specifico. Abbiamo già visto per il primo decreto che tra il momento in cui viene pubblicato dalla gazzetta ufficiale e la effettiva realizzazione, passano settimane. Ieri sul Sole 24 Ore c’era una tabella impressionante: i provvedimenti varati per affrontare l’emergenza coronavirus sono 234, riempiono oltre mille pagine, coinvolgono cinque ministeri (salute, interno, giustizia, economia, funzione pubblica) la protezione civile, l’Inps, l’Inail, la Banca d’Italia, l’Assobancaria. Un labirinto impenetrabile e senza filo di Arianna.
Il decreto liquidità dovrebbe contenere anche gli adempimenti fiscali del 16 aprile e del 26 maggio. Saranno sospesi i pagamenti di Iva, contributi e ritenute, si pensa di bloccare il pagamento per le partite Iva e gli autonomi con volume d’affari fino a 10 milioni di euro e che hanno registrato una perdita di fatturato del 25% o del 33%. Ancora una volta si va avanti a spizzichi e bocconi, mese dopo mese, trimestre dopo trimestre il che non offre nessuna certezza alle aziende, mentre si parla di far ripartire l’attività. Ammesso che la pandemia lo consenta, il rischio è che non lo consentano le condizioni produttive quando alla paura si aggiunge l’incertezza.
E qui veniamo alla questione di fondo: il Governo non ha un progetto di intervento organico, non ce l’ha per l’emergenza, tanto meno per la ripresa. I due tempi sono distinti, ma strettamente collegati. L’anello di congiunzione si chiama investimento. Bisogna mettere in campo piani ben congegnati e finanziati che abbiano una prospettiva pluriennale e riguardino le infrastrutture materiali e immateriali, a cominciare dalla sanità ovviamente, e dal sostegno alle imprese più direttamente coinvolte.
Gli investimenti non generano inflazione, sono apprezzati dai mercati, hanno un effetto moltiplicatore sull’economia (secondo alcuni economisti da uno a tre e si possono autofinanziare nel giro di due-tre anni). Non si tratta di una fuga in avanti. È chiaro che oggi bisogna pensare soprattutto a tamponare le conseguenze immediate della pandemia, ma contemporaneamente occorre ragionare sull’immediato futuro, sul che fare non appena ci sarà una riapertura (il lockdown non può durare fino al punto che dopo la pandemia arrivi una carestia) e su come riavviare il motore.
Il Governo non può coprirsi dietro l’Unione europea, né rinviare in attesa di quel che decideranno a Bruxelles. Sappiamo grosso modo quel che uscirà dal prossimo vertice (utilizzo del Mes con blande condizioni e prestiti della Banca europea degli investimenti, il tutto per un ammontare di circa 350 miliardi di euro), quindi sta al Governo italiano fare tutto quel che è necessario (ormai whatever it takes è diventato un mantra), senza alibi, né scaricabarile.
Secondo stime attendibili, se la caduta del Pil nella zona euro (che ammonta a 12 mila miliardi) fosse attorno al 10% per compensarlo ci vorrebbero una spesa pari a un migliaio di miliardi. Il disavanzo pubblico dell’intera area salirebbe al 9% del Pil e il debito oltre il 90%. Altro che criteri di Maastricht, solo una ripresa sostenuta potrebbe far ripagare i debiti. Sono cifre che a Bruxelles conoscono e i Governi “rigoristi” non potranno fare a lungo orecchi da mercante. Un progetto integrato da parte dell’Italia imperniato sugli investimenti non troverebbe nessun serio ostacolo, nemmeno sui mercati, anche se il disavanzo che nel 2019 era dell’1,6% venisse moltiplicato per tre. Tocca a noi, dunque, trovare la cura.