Appena sbarcato negli Stati Uniti, prima di partecipare all’Assemblea generale dell’Onu, Mario Draghi ha ricevuto il premio come miglior statista mondiale dell’anno da parte dell’Appeal of Conscience Foundation. Un riconoscimento che arriva, di fatto, al termine dell’esperienza di governo di cui il Premier stesso ha fatto una sintesi venerdì scorso, durante la conferenza stampa che ha seguito l’approvazione del Decreto aiuti-ter, nella quale ha anche detto di non essere disponibile per un secondo mandato.
Secondo Gustavo Piga, professore di economia politica all’Università Tor Vergata di Roma, c’è però un passaggio in quella conferenza stampa che non è stato adeguatamente sottolineato: «Draghi ha infatti detto che “la crescita non viene prodotta dai governi, i governi possono al massimo mantenere, creare un ambiente favorevole alla crescita. La crescita viene prodotta dagli italiani”. Questa è la più plastica sintesi di una visione non keynesiana da parte del presidente del Consiglio, che per certi versi stupisce dato che si tratta di un allievo di un noto keynesiano come Federico Caffè. Sappiamo bene che la politica economica esiste per generare crescita nei momenti di difficoltà ed evitare fenomeni di scomparsa definitiva delle imprese dovuti a crisi temporanee. Negare il ruolo della politica economica è particolarmente grave, ma è anche coerente con quello che abbiamo visto fare a questo Governo».
Cosa intende dire?
Che mantenere invariati i livelli dichiarati del rapporto deficit/Pil a fronte di modifiche radicali delle stime di crescita rappresenta una conferma del contenuto delle dichiarazioni di Draghi, del credo del suo Governo, che ritiene che la politica economica non possa servire a contrastare shock esogeni sull’economia. Nel 2021, infatti, si stimava una crescita per il 2022 pari al 4,7%, e per questo il deficit/Pil veniva previsto al 5,6%. Con il passare dei mesi le stime sul Pil di quest’anno sono scese al 3%, ma a palazzo Chigi si è scelto comunque di mantenere inalterato l’obiettivo di riduzione del disavanzo. Questo dimostra che l’attuale Esecutivo non ha la minima idea di cosa sia la politica economica attiva quale strumento per venire incontro alle difficoltà delle persone.
Eppure, nella conferenza stampa Draghi ha ricordato che sono stati già stanziati, per sostenere famiglie e imprese, 60 miliardi di euro “pari al 3,5% del Pil, che ci pone tra i Paesi che hanno speso di più in Europa”…
Ma il Premier ha anche detto che il Governo è riuscito a ridurre “l’indebitamento come credo non fosse mai avvenuto dalla guerra ad oggi”. Se questo è vero, come drammaticamente è visto che è stato fatto nel momento di maggior crisi dal dopoguerra in poi, com’è possibile che abbia anche speso di più?
Appunto, com’è possibile?
È tutta una strategia di comunicazione. Le faccio un esempio pratico. Una diminuzione di deficit di 50 miliardi di euro può essere frutto di una riduzione di spesa di 80 miliardi e di un suo contemporaneo aumento di 30. Basta quindi in conferenza stampa comunicare solo l’aumento di 30, spiegando dove sono andate queste risorse, nascondendo però la riduzione di 80. Così si ottiene il risultato di aver ridotto il deficit, come chiesto magari dall’Ue, lasciando, però, il Paese in uno stato di difficoltà immensa, sia per quanto riguarda l’occupazione e la produzione, sia per quel che concerne la sostenibilità del suo debito pubblico, legata alla crescita del Pil. Del resto, nell’ultimo decennio, prima del Covid, abbiamo ben visto che ridurre fortemente le spese non ha portato a una riduzione del rapporto debito/Pil come veniva annunciato.
Quali sono le spese ridotte che non state comunicate dal Governo?
Come ben noto, dopo lo scoppio della pandemia c’è stato un enorme trasferimento di risorse pubbliche all’economia per assistere le imprese. Tutto questo ora è sparito.
Anche perché non ci sono più le restrizioni di prima…
Giusto, ma l’economia è ancora malata e i risparmi derivanti dall’azzeramento di questi sostegni avrebbero potuto essere in parte destinati a investimenti pubblici e non totalmente alla riduzione del deficit.
A proposito di deficit, dato che non possiamo aumentarlo, per fronteggiare le conseguenze della crisi energetica dobbiamo aspettare un intervento dell’Europa?
Lo scostamento di bilancio deve essere assicurato, nel senso che non si può pensare di confermare l’obiettivo fissato dal Def per il 2023 di riduzione al 3,9% del deficit/Pil, ma occorre almeno restare al 5,6% di quest’anno, liberando così circa 40 miliardi di euro da destinare a sostegni all’economia e a investimenti pubblici, compresi quelli sull’energia per rendere il nostro Paese più indipendente su questo fronte. Non sprechiamo le energie parlando con l’Europa di troppe cose: la priorità è il deficit/Pil al 5,6% per il 2023, così da mettere in sicurezza famiglie e imprese di fronte al caro bollette. Dopodiché il Governo avrà un importante compito da svolgere.
Quale?
Non possiamo chiedere al prossimo Governo solo di spendere. Occorre che faccia quello che nessun Esecutivo ha mai fatto finora: la spending review, cioè una revisione della qualità della spesa, spiegando anzitutto dove si vogliono spendere strategicamente risorse per il futuro e dopo illustrando dove si trovano tali risorse, in particolare riducendo gli sprechi. Quindi, niente quote per il pensionamento anticipato, niente Reddito di cittadinanza, ma investimenti pubblici a gogo e buona spesa. Bisogna andare in Europa con queste due gambe: politiche fiscali espansive e garanzia di qualità della spesa. Su queste due dimensioni i Governi di Conte e Draghi sono stati carenti.
Secondo lei, andrebbe rivisto il Pnrr?
Nel suo discorso sullo stato dell’unione, la scorsa settimana Ursula von der Leyen ha detto che il “NextGenerationEU è stato concepito quasi due anni fa, ma è esattamente ciò di cui l’Europa ha bisogno in questo momento. Quindi atteniamoci al piano previsto”. Mi sembra che questa frase rappresenti un chiaro monito all’Italia a non cambiare il Pnrr. Tuttavia, sarebbe un errore, perché con l’esplosione dei prezzi delle materie c’è il rischio che le gare vadano deserte. Occorre quindi ridurre il numero di opere per aumentare il volume delle risorse delle gare rimanenti, così da fare in modo che le imprese vi partecipino consapevoli che potranno almeno coprire i costi. Vanno poi allungate le scadenze, almeno di un anno. Il Portogallo si è mosso in questa direzione e credo che l’Italia farebbe bene a seguirlo. Soprattutto, però, occorre rimediare all’assoluta mancanza, da parte degli ultimi due Governi, di investimenti nel capitale umano della Pa per il Pnrr, altrimenti diventerà impossibile realizzare tutto il Piano.
Ursula von der Leyen ha anche annunciato, per ottobre, nuove proposte per una riforma della governance economica europea. Si può essere ottimisti?
Mi auguro che finalmente possa esserci un’Italia coraggiosa pronta a dire no a qualsiasi proposta di maquillage che porterebbe a non cambiare la filosofia di fondo dell’impianto attuale delle regole, che è poi quella che è stata espressa chiaramente dalla von der Leyen, che ha posto l’accento sulla riduzione del debito. Ridurre il rapporto debito/Pil senza pensare alla crescita del denominatore è impensabile. Speriamo quindi che il nuovo Governo si batta su questo punto, ma per farlo deve garantire una spending review, una riqualificazione della spesa credibile di cui questo Paese ha un enorme bisogno.
(Lorenzo Torrisi)
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