La pandemia sta agendo da acceleratore di cambiamenti già in atto, in parte auspicati e in parte in risposta a situazioni mai sperimentate nel passato. Abbiamo scoperto di essere tutti interconnessi, dipendenti gli uni dagli altri, ma si è anche conclusa definitivamente l’era del globalismo, intesa come ideologia che schiaccia la storia particolare in nome di un formalismo politically correct usato a beneficio dei più forti, che ha dominato per molti anni la governance della globalizzazione. Per come la conosciamo oggi, seriamente picconata dall’America First di Trump e dalla Brexit, essa è già virtualmente superata. Ogni Paese va per la sua strada e le Unioni di Stati non sono da meno.



L’Europa in queste ore sta provando con grande fatica a mostrarsi compatta, ma con scarsi risultati, rischiando di essere disintegrata come un vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro di Usa, Cina e Russia. Ovviamente la soluzione non può essere un’altra ideologia uguale e contraria, il sovranismo in salsa protezionista, prodromo di divisioni e conflitti di cui è già pieno il mondo. La logica del “si salvi chi può”, che sembra prevalere in questi giorni, a livello delle politiche sovranazionali, nazionali e regionali, è agli antipodi del “nessuno si salva da solo” di papa Francesco, che invece emerge dalle tante testimonianze di sacrificio ed eroismo quotidiano tra la gente-gente. Si applicano inoltre norme procedurali per gli aiuti anacronistiche, pensate per tempi di normalità, invece del whatever it takes di Mario Draghi, che sottende l’idea che le regole e la finanza sono al servizio dell’economia reale e quindi delle persone concrete. Papa Francesco e Mario Draghi sono sicuramente tra le voci più lucide, su piani diversi e complementari, nella confusione di questi giorni.



Troveremo soluzioni utili, non affidandoci a nuovi ismi, ma sottoponendo a verifica l’adeguatezza di come stiamo effettivamente reagendo rispetto a quanto accade, ponendo le domande opportune e chiamando a raccolta le migliori forze del Paese (politica, business community, mondo accademico, corpi intermedi, …) per proporre ipotesi di risposte.

Da questo punto di vista, l’emergenza in corso è il momento propizio per mettere a punto al più presto provvedimenti e misure in discontinuità netta col passato, che poggino su una vision complessiva e scelte precise di medio lungo periodo finalizzate alla rinascita della nostra economia dalle ceneri di una crisi in atto da tempo e ora acceleratasi, sul modello di ciò che accadde nell’ultimo dopoguerra in Italia con la ricostruzione e il boom economico. E per la seconda manifattura europea quale siamo, tale rilancio non può che avere al centro una nuova (se mai ce ne è stata una…) politica industriale. Non aspettando di essere trainati dall’Europa, salvo poi lamentarcene, ma concependoci come soggetto trainante, peraltro ruolo insito ab origine nella storia nostra ed europea.



Quali possono essere dunque i capisaldi di questa nuova politica industriale? Quali sono le opportunità che si aprono da questa crisi? Su quali punti di forza della nostra economia e della nostra cultura possiamo far leva per coglierle? E quali aree di miglioramento possiamo colmare in proporzione realistica alle risorse disponibili? Quale momento migliore di questo sulla spinta dell’emergenza per fare scelte strategiche forti e dirompenti, cioè non convenzionali o generiche ma precise e puntuali nell’adottare misure, diverse a seconda dell’urgenza, ma coerenti con un disegno strategico di medio-lungo termine? Il momento che stiamo vivendo semplicemente ce lo impone.

Di seguito ci permettiamo di accennare solo alcuni spunti di riflessioni che non hanno pretesa di esaustività, ma desiderano dare un piccolo contributo sia alla business community, sia a chi ha l’arduo ma stimolante compito di governare in questo momento storico unico per il nostro Paese e per il mondo.

Innanzitutto proviamo a identificare un obiettivo alto e sfidante ma insieme specifico e puntuale nelle priorità che fissa per la nostra politica industriale: rendere l’Italia il miglior posto al mondo per investire in attività di ricerca e sviluppo e produttive ad alto valore aggiunto, attraendo capitali su settori industriali specifici ad alto potenziale che richiedono un alto livello di qualifica del personale (per esempio, centri di ricerca e ingegnerizzazione) e fanno leva su eccellenze distrettuali già presenti sul territorio. L’obiettivo è sfidante perché implica il ribaltamento dell’attuale nostra reputation: nella logica manageriale di molte multinazionali l’Italia è vista come il miglior posto dove chiudere un’attività e il peggior posto dove aprire o implementare un investimento produttivo, per cause che ben conosciamo soprattutto di natura burocratica e fiscale. Ma è anche un obiettivo realistico perché fa leva su elementi distintivi positivi già riconosciuti all’Italia sul mercato globale, riguardanti soprattutto il fattore umano:

– l’alta qualità delle risorse umane qualificate (ricercatori, ingegneri, manager, ecc.) in rapporto al loro costo, più basso rispetto ad altre economie occidentali concorrenti;

– un livello del contesto accademico e formativo medio-alto, con punte di eccellenza, che coniuga la cultura tecnico-scientifica con quella umanistica, favorendo l’educazione alle soft skill sempre più necessarie per fare la differenza oggi;

– eccellenze di competenze diffuse sul territorio in distretti industriali all’avanguardia e naturalmente resilienti, appartenenti a svariati filiere della manifattura (meccatronica, alimentare, moda, acciaio, pharma, ecc.) che richiedono innovazione e ricerca continue;

– in generale una cultura diffusa di creatività, del saper fare e risolvere problemi complessi e imprevisti con un metodo collaborativo, empatico, non invasivo e valorizzatore del contributo altrui in funzione di uno scopo più che di una procedura;

– una rete sociale di corpi intermedi che, seppur in crisi, è ancora viva ed essenziale allo sviluppo, mentre è pressoché assente in altre economie avanzate.

Il tutto, come ben sappiamo, in un contesto culturale, artistico e paesaggistico unico al mondo. Con quali azioni quindi perseguire l’obiettivo strategico e soprattutto come fare leva sugli elementi di eccellenza sopra elencati? Ne accenniamo solo alcune che riteniamo prioritarie per una politica di rilancio industriale:

1) Un drastico e vasto piano di incentivi di defiscalizzazione e de-burocratizzazione strutturale per attrarre centri di ricerca e ingegnerizzazione di realtà multinazionali incentivando la ricerca, l’evoluzione tecnologica e la crescita dimensionale delle aziende già presenti, facendo leva sul know-how e le migliori pratiche dei nostri distretti, la collaborazione col mondo accademico e favorendo la reindustrializzazione e la riconversione di siti produttivi dismessi. I criteri di erogazione degli incentivi, che dovranno essere realmente disruptive (vi sono molti modelli nel mondo da cui attingere in modo non acritico), dovrebbero essere la qualità e il valore aggiunto dell’attività implementate, la qualità e quantità dell’occupazione generata e la solidità e sostenibilità dei piani industriali: chi vuole investire in questo modo non solo deve essere attratto dagli incentivi attraverso una vasta rete promozionale sui principali mercati internazionali, ma deve essere accompagnato per mano nella scelta dei siti da sviluppare, nell’ottenimento delle autorizzazioni e delle agevolazioni, nello start-up operativo del progetto, seguendo corsie amministrative preferenziali con tempi rapidi e soprattutto certi di realizzazione dell’investimento.

I centri di ricerca alimenterebbero lo sviluppo del know-how, l’indotto manifatturiero e l’humus per una nuova classe di imprenditori. I nuovi imprenditori, di cui si sente tanto il bisogno, non nascono dal nulla, né solo dal mondo formativo, ma da luoghi precisi dove possono imparare un mestiere sul campo. Va da sé che questo processo attirerebbe talenti innescando un processo virtuoso sul capitale umano. Il tutto peraltro cavalcando un’onda di ritorno che è già un fatto di tendenza (in Usa è un processo in atto sin dal 2010): le supply chain troppo lunghe e con partenza dalla Cina/Far East saranno ristrutturate. Negli ultimi anni abbiamo assistito a fenomeni di reshoring prevalentemente legati a motivazioni di qualità e time to consumer, quando sulla scena irrompe ora il tema della sicurezza della supply chain stessa.

2) Una nuova politica di intervento del pubblico in alcuni settori strutturali e strategici che da soli nel breve non sono di per sé attrattivi per gli investimenti privati (ad esempio, nella filiera dell’acciaio, vedi il caso Ilva a Taranto e non solo), ma sono essenziali per la competitività complessiva. Lo Stato, con interventi diretti richiesti inevitabilmente da questa inedita crisi, può favorire la crescita sia qualitativa che dimensionale di alcune aziende in comparti strategici per la nostra economia ma non attraenti per il mercato (almeno in questo momento), anche sfruttando opportunità di reindustrializzazione che non lascino disperdere il capitale di competenze nei relativi territori, rilanciandone l’occupazione. Tale approccio deve accompagnarsi con politiche che diano condizioni di competitività strutturale alle aziende sul nostro territorio, in particolare sul costo del lavoro, agendo sul cuneo fiscale, e dell’energia. Lo sforzo economico richiesto sarebbe ampiamente ricavabile dirottando risorse da misure e agevolazioni oggi elargite senza un criterio strategico ma secondo logiche estemporanee, talvolta clientelari e quindi dannose. In questo scenario stiamo già cogliendo i prodromi di uno Stato proiettato a divenire sempre più imprenditore. Agli ingenti stanziamenti per la gestione dell’emergenza sanitaria, per la tutela dell’occupazione, dei redditi e la liquidità delle aziende, se ne aggiungeranno di nuovi per la ripartenza. Una quantità monstre di liquidità e garanzie bancarie sarà immessa nell’economia e c’è già materia per ritenere che in parte si tradurrà in un nuovo azionariato di Stato attraverso la nazionalizzazione di grandi gruppi oggi virtualmente falliti e partecipazioni in equity oltre le regole dei trattati vigenti. Francia, da tempo, e Italia, più recentemente, sono già apertamente lanciate su questa strada. Ma, a maggior ragione in considerazione del nostro debito pubblico, le risorse, certo non infinite, dovranno essere utilizzate e governate secondo una strategia e un criterio chiaro. Per non ricadere in uno statalismo che nessuno auspica, l’orizzonte temporale dell’intervento pubblico dovrà essere tendenzialmente a termine nella logica di riattivazione di un volano che poi favorisca l’iniziativa imprenditoriale e la sussidiarietà.

3) Misure di straordinaria semplificazione delle procedure per lo sblocco immediato di opere pubbliche che già hanno copertura finanziaria, di progetti privati, piccoli o grandi che siano, oltre al lancio di nuovi progetti per rafforzare il sistema infrastrutturale e mettere in sicurezza il territorio dal rischio idrogeologico.

4) Una politica particolare per il mezzogiorno visto come potenziale hub formativo per tutto il sud mediterraneo, per trattenere i giovani locali ora in fuga e formare quelli provenienti dalle migrazioni in atto: potrebbero poi essere i migliori ambasciatori dell’italian style tornando come classe dirigente nei paesi di origine e creando positive ricadute relazionali ed economiche. Senza dimenticare la necessità di rilanciare e valorizzare le realtà industriali già presenti.

La guida trainante di una tale politica industriale non potrà che essere a livello nazionale per evitare di andare in ordine sparso con logiche parziali e particolaristiche e per indirizzare gli investimenti nei luoghi e settori più opportuni e strategici, a patto che il Governo centrale sappia valorizzare e coinvolgere le eccellenze della business community locale e le amministrazioni territoriali. Del resto, per la prima volta in Italia, è stata istituita, seppure in chiave emergenziale, una struttura dello Stato che ha nella mission anche la riconversione industriale. C’è da augurarsi che l’emergenza faccia da volano al disegno di una vera e propria politica industriale con una visione strategica.

Infine, #iorestoacasa si sta protraendo per un tempo sufficientemente lungo tale da incidere in profondità sui comportamenti individuali, i processi aziendali e sull’organizzazione del lavoro. C’è da attendersi che il ricorso allo smart working diventi massivo e strutturale così come l’incremento esponenziale dello shopping on line tale da accelerare la trasformazione già in essere del modello distributivo dei beni di consumo e non solo, come già stiamo osservando.

È vero: tutto cambierà e non sarà più come prima. Ma non andrà né tutto bene, né tutto male in modo automatico: tutto dipenderà dalla reazione e dalle scelte libere e non meccaniche di quel fattore umano che può sempre sovvertire ogni previsione, di qualsiasi segno essa sia.

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