In attesa di scoprire quanto a lungo duri l’immunità indotta dal vaccino contro il Covid-19, e dunque per quanto sia “valida” la somministrazione di una dose del siero, scienziati ed esperti sono al lavoro per far luce sul meccanismo di sviluppo della protezione. Se i vaccini più utilizzati contro il virus, Moderna e Pfizer, garantiscono un’efficacia superiore al 90% contro il Coronavirus, quel che interessa comprendere è la risposta immunitaria e il numero di anticorpi che ogni siero fa sviluppare nei pazienti sottoposti a vaccinazione.



Un recente studio guidato dalla dottoressa Daniela Weiskopf, insieme a Shane Crotty e Alessandro Sette del La Jolla Institute for Immunology, ha esaminato la memoria immunitaria nei pazienti sei mesi dopo la vaccinazione col siero Moderna. Il lavoro, finanziato principalmente dal National Institute of Allergy and Infectious Diseases (NIAID) del National Institutes of Health e i cui risultati sono apparsi su Science il 14 settembre 2021, si è concentrato sui livelli di cellule T tra la prima e la seconda dose, quelle cellule che permettono al nostro corpo di riconoscere e proteggerci dai patogeni incontrati in precedenza. Lo studio, che ha visto partecipare 35 pazienti, ha evidenziato che nell’arco dei sei mesi le cellule in questione erano ancora presenti in numero elevato, concedendo dunque un’immunità a lunga durata.



Moderna, memoria immunitaria a lunga durata: lo studio

I ricercatori ritengono che per l’immunità siano necessarie forti risposte sia dagli anticorpi neutralizzanti che dalle cellule immunitarie chiamate cellule T. Nello studio del NIAD il team ha valutato i livelli di anticorpi e cellule T dopo la prima e la seconda dose del vaccino Moderna e di nuovo sei mesi dopo. Hanno misurato dunque due sottogruppi di cellule T: cellule T CD8+, o cellule T “killer”, che distruggono le cellule infettate da virus, e le cellule T CD4+, cellule T “aiutanti” coinvolte nella produzione di anticorpi. Quello che è emerso è che i livelli di anticorpi, di cellule T CD4+ e cellule T CD8+ sono rimasti forti sei mesi dopo aver ricevuto il vaccino, risultato riscontrato anche tra i partecipanti di età superiore ai 70 anni che sono particolarmente vulnerabili alla malattia grave.



I risultati, si legge sul sito del National Institutes of Health, dimostrano che le cellule T CD8+ di memoria sono state rilevate nel 67% dei partecipanti sei mesi dopo la vaccinazione completa. Dati importanti per il vaccino della casa americana, che fino a questo studio non sapeva con certezza se il siero producesse o meno cellule T di memoria. Andando ad analizzare i risultati più nello specifico il team ha anche scoperto che il vaccino ha generato una memoria immunitaria contro la proteina spike SARS-CoV-2 simile a quella dell’infezione naturale. I livelli di anticorpi, cellule T CD4+ e cellule T CD8+ sei mesi dopo la vaccinazione erano infatti paragonabili a quelli degli individui guariti. Le cellule T “cross-reattive”, quelle prodotte durante l’infezione con altri coronavirus che possono causare il comune raffreddore, hanno poi migliorato la risposta al vaccino.