Mogol: ricorda il primo incontro con Lucio Battisti

Se Lucio Battisti fosse ancora vivo, domenica 5 marzo compirebbe 80 anni. Ma il compositore è morto a soli 55 anni il 9 settembre 1998. Il lungo sodalizio con Mogol, al secolo Giulio Rapetti, ha dato un imprinting unico alle canzoni di Battisti. “Ci fece conoscere Christine Leroux, direttrice di una casa di edizioni musicale che aveva fatto un contratto a Lucio. Lui mi fece sentire due canzoni. “Non mi sembrano un granché”, dissi. E lui “In effetti… sono d’accordo”.



Era semplice e umile, sorrise nonostante la batosta. Per non sentirmi un verme miserabile gli proposi di vederci per provare a fare qualcosa insieme. Nacquero Dolce di giorno e Per una lira”, ha raccontato Mogol al Corriere della Sera, ricordando il loro primo incontro. All’epoca, però, il paroliere “non aveva intuito nulla” di Battisti, anche se fu Mogol a convincerlo a cantare: “Era moderno. Non cantava per far sentire la voce, ma per comunicare qualcosa”.



Mogol: “Battisti? Mi chiamava il poeta”

Ricordando la sua lunga collaborazione con Lucio Battisti, Mogol ha definito il cantautore un “matematico”: “Studiava sette ore al giorno le canzoni dei più grandi artisti mondiali. Io ero la parte letteraria, mi chiamava “il poeta”. Ho sempre scritto le parole dopo la musica perché credo che ogni frase musicale abbia già un suo senso”, ha detto al Corriere della Sera. Quando lavoravano insieme i due si trovavano tutte le mattine nella villa a Molteno di Mogol: “Io preparavo il primo caffè per accoglierlo, lui quelli successivi. Lucio stava sul divano con la chitarra, io sul tappeto con carta e penna. Lavoravamo un’ora, dalle 9 alle 10, e nasceva una canzone al giorno. Una volta che era pronto un album, il primo ascolto era riservato a un amico giardiniere”. Il loro più grande successo è stato “Il mio canto libero”, che racconta di un nuovo amore del paroliere dopo il divorzio. Nel 1980, dopo circa 150 canzoni scritte insieme, Mogol e Battisti misero la parola fine al loro sodalizio: “Non fu una questione di soldi, ma di equità. Lui otteneva due terzi dei diritti e io un terzo. Chiesi di dividere in parti uguali. Sembrava d’accordo, ma il giorno dopo cambiò idea. Gli dissi che non avrei più lavorato con lui”.

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