Stretta della Cassazione in tema di molestie sessuali e consenso. Secondo le recenti sentenze della Suprema Corte, riporta Il Messaggero, anche una frase può portare a perdere il posto di lavoro: legittimo il licenziamento di un dipendente per molestie anche solo verbali, quindi anche un’allusione può far scattare il provvedimento. Il reato di violenza, inoltre, si concretizza quando il consenso manca all’improvviso, anche quando il rifiuto subentra durante un rapporto sessuale iniziato consensualmente.



A fissare questi punti chiave in materia di abusi e stupro è anzitutto una prima sentenza, destinatario un uomo condannato a 12 anni per violenza sessuale e maltrattamenti (avrebbe costretto la moglie a proseguire rapporti intimi contro la sua volontà), seguita da un’altra che ha dichiarato legittimo il licenziamento del dipendente di una azienda denunciato da una collega per apprezzamenti a sfondo sessuale. Un focus importante è riservato proprio alla questione del consenso, come riporta ancora il quotidiano citando un passaggio della sentenza degli ermellini: “Si rammenta che, in tema di reati contro la libertà sessuale, nei rapporti tra maggiorenni, il consenso agli atti sessuali deve perdurare nel corso dell’intero rapporto senza soluzione di continuità, con la conseguenza che integra il reato di violenza sessuale la prosecuzione del rapporto nel caso in cui, successivamente a un consenso originariamente prestato, intervenga in itinere una manifestazione di dissenso“. Inoltre, il “no” della vittima può anche non essere esplicito.



Molestie sul posto di lavoro: per i giudici il reato sussiste anche senza contatto fisico

Per quanto riguarda le molestie sul posto di lavoro, la seconda sentenza della Cassazione ha visto i giudici pronunciare una decisione che chiarisce come il reato sussista anche in assenza di contatto fisico. In altre parole, anche un apprezzamento o un’allusione sessuale possono portare al licenziamento. Questo si evincerebbe dalla sentenza che riguarda un lavoratore licenziato dall’azienda a seguito della denuncia di una collega per frasi da lei ritenute offensive e sgradite. Per gli ermellini, vige la “giusta causa” nella scelta di cessare il rapporto di lavoro da parte del datore e non c’è “clima goliardico” che tenga (così, secondo quanto ricostruisce Il Messaggero, il dipendente avrebbe tentato di giustificare la sua condotta nei confronti della donna)



Per la Cassazione, non importa l’intenzione della persona che muove apprezzamenti o comportamenti indesiderati: anche in assenza di una volontà di offendere, secondo gli ermellini si è in presenza di molestie e quindi è regolare il licenziamento. Stando a quanto emerso dalla valutazione dei giudici, il dipendente sottoposto a giudizio avrebbe inoltre tentato di screditare la vittima delle sue condotte dipingendola come persona inattendibile, ma diversi elementi oggettivi avrebbero permesso di inquadrarne le responsabilità finendo per confermare la perdita del posto di lavoro.