Non i no vax, ma l’uso del farmaco antivirale molnupiravir potrebbe causare la diffusione di nuovi ceppi. A scoprire il paradosso un team di ricercatori britannici e americani, alcuni dei quali affiliati all’Imperial College di Londra. Lo studio, un pre-print quindi non ancora sottoposto a revisione paritaria, è stato pubblicato su medRxiv e riportato Bloomberg. Il medicinale sviluppato da Merck, commercializzato col nome Lagevrio, è stato associato ad alcune mutazioni del coronavirus, che i pazienti curati con tale farmaco hanno trasmesso anche ad altre persone. Le versioni mutate del virus Sars-CoV-2 non sono né più immunoevasive né più aggressive, ma non si tratta di un fenomeno inedito.



Il Financial Times nel dicembre 2021 riportò l’ipotesi di una parte della comunità scientifica secondo cui l’antivirale molnupiravir avrebbe avuto un ruolo nella comparsa del ceppo sudafricano. Peraltro, il farmaco della Merk è stato sperimentato proprio in Sudafrica. Anche William Haseltine di Harvard in quel periodo affermò che «in determinate circostanze», il molnupiravir poteva generare delle varianti. Le ragioni di questo fenomeno risiedono nel meccanismo di azione del medicinale. Il farmaco, infatti, induce delle mutazioni nel genoma del Covid affinché si autodistrugga. In alcuni casi, però, gli individui trattati con il medicinale non eliminano del tutto il microrganismo, rendendosi così loro malgrado vettori di varianti ignote.



MOLNUPIRAVIR E MUTAZIONI COVID: GLI “INDIZI”

I ricercatori hanno tracciato ramificazioni filogenetiche del Covid, riscontrando che compariva solo nelle sequenze isolate nel 2022, quindi dopo l’introduzione di questa terapia, in Stati e fasce d’età in cui si era fatto largo uso del medicinale. Come in Australia, America e Regno Unito. Non in nazioni dove la variante era più rara, come Canada e Francia che non avevano neppure dato il via libera all’antivirale. Negli Stati Uniti, in particolare, i ceppi mutati risultavano identificabili negli anziani, la fascia a cui veniva raccomandato l’antivirale. Jonathan Li, esperto di virus ad Harvard e Boston, a Bloomberg ha spiegato che «c’è sempre stata questa preoccupazione di fondo che [la pillola, ndr] potesse contribuire al problema, generando nuove varianti».



Dunque, tale studio alimenta questi dubbi (che si aggiungono a quelli sull’efficacia), che aumentano se si tiene conto che almeno fino alla fine di marzo la Cina ha deciso di puntare su questo farmaco. Ma non ci sono conferme sul legame tra l’ondata vissuta dal Dragone e il molnupiravir. L’azienda nega tutto. Il portavoce Robert Josephson ha dichiarato che «non ci sono prove che un qualche agente antivirale abbia favorito l’emersione delle varianti in circolazione» e che i test sugli animali non hanno riscontrato tali rischi, anzi Lagevrio funziona molto bene.