Pur essendo ancora in mezzo al guado, non si può non pensare alla ripresa, al ritorno alla normalità, per quanto questa parola sia diventata semanticamente oscura. Riflettendo, mi sembra che uno dei problemi maggiori è il concetto di Stato che ne verrà fuori. Sembrerebbe un esercizio teorico, ma tanti segni, a mio avviso, mostrano l’opposto.
L’idea liberista, in forza della quale lo Stato dovrebbe praticamente assentarsi per lasciare spazio all’iniziativa dei cittadini, è stata minata alla radice dal virus. Ogni sviluppo economico sarebbe soggetto alla sovranità del libero mercato, che tende a correggere gli eccessi fisiologici del proprio espandersi da solo, o al massimo sotto l’egida di regole, che tuttavia, quand’anche analitiche, non riescono a ottenere l’efficacia voluta. Ci sono, però, alcune criticità, di cui il virus ha accelerato la manifestazione. Un anno fa, allo scoppio della crisi sanitaria, in piena carenza di dispositivi protettivi, le mascherine, praticamente introvabili, si vendevano a peso d’oro: in qualche città italiana, sfiorarono il prezzo unitario di parecchie centinaia di euro e, ciò nonostante, qualche illuminato economista (di cui per fortuna ho scordato il nome) invocava la mano libera del mercato, che avrebbe corretto da sé l’eccesso, criticando l’intervento pubblico calmierante da parte di alcuni Stati, tra cui la Francia.
Tali difficoltà emergono proprio ora in tutti i potenziali tragici effetti. Le case farmaceutiche che hanno sviluppato vaccini anti-Covid tengono gelosamente stretti i propri brevetti, negoziando con singole nazioni la produzione, senza peraltro problematizzare la propria capacità produttiva, senz’altro insufficiente a coprire l’esigenza del mondo intero. Lo ha denunciato con forza Mohammad Yunus (Nobel per la pace), in un’intervista recente ad un quotidiano nazionale: «Non vedo molto sostegno da parte dei leader politici per rendere il vaccino un bene senza brevetto. L’iniziativa intrapresa dall’India e dal Sud Africa durante la riunione del Wto è stata una grande speranza. Ma non è riuscita a generare sostegno dai paesi ricchi. Molti paesi che hanno ricevuto la prima fornitura di vaccini potrebbero non ricevere i rifornimenti successivi o in prossimità di essa, se la capacità di produzione globale viene mantenuta legata alla capacità delle società farmaceutiche proprietarie di brevetti. Nel frattempo le frustrazioni in tutto il mondo non possono che essere espresse come “apartheid vaccinale”, “nazionalismo vaccinale” o “tribalismo vaccinale”. Molti leader hanno già sottolineato la crisi morale che questa situazione rappresenta per tutti noi».
Un intervento coordinato da organizzazioni sovranazionali, stimolato e supportato dalle diverse nazioni, che metta attorno a un tavolo le case farmaceutiche e coordini accordi vantaggiosi per tutti, è possibile e auspicabile, se ci si impegna, salvo continuare a sostenere che il libero mercato curerà da sé i suoi malanni (“tribalismo” o “nazionalismo vaccinale”), nonostante gli inquietanti segnali che provengono, ad esempio, dalla misteriosa comparsa/scomparsa di un’ingente quantità di vaccini Astrazeneca, sufficiente per vaccinare una buona parte della popolazione italiana, fermi in uno stabilimento di Anagni e, così pare, in partenza per il Belgio; oppure, l’errore – un po’ grossolano, ma quando ci sono eccessivi picchi di lavoro può succedere! – avvenuto a Baltimora, dove un’azienda, fornitrice di J&J e di Astrazeneca, ne avrebbe scambiato il contenuto, compromettendo milioni di dosi destinate innanzitutto agli Usa.
A livello mondiale, gli Stati hanno messo in campo enormi risorse per sostenere lavoratori, famiglie e imprese: con l’ultimo Decreto sostegni, per rimanere in casa, il Governo ha varato misure per circa 32 miliardi di euro. Senza eccepire sulla necessità dei sostegni, qualcuno paventa l’eredità Covid di uno Stato futuro più pesante e invasivo nei confronti dell’economia, con il rischio di formare una zavorra inamovibile, tra gangli politici indistricabili, tanto più quando la spesa pubblica aumenta, ma il Paese non cresce da molti anni. Eppure, se c’è un dato che la pandemia ha contribuito a palesare, è il bisogno che noi tutti abbiamo dello Stato.
Il ragionamento, in fondo, è molto semplice: quando tutti siamo colti di sorpresa da una grave calamità, capiamo benissimo che non possiamo farcela da soli, neanche unendo spontaneamente le energie. Molto di sbagliato, molto da riformare, ma senza un intervento pubblico deciso non riusciremmo a sopravvivere. I sussidi, che prima o poi finiranno, dovranno diventare investimenti ed essere selettivi verso quelle realtà, imprenditoriali, sociali ed educative, che potranno produrre valore e nuova crescita per tutti:
«È importante pensare – dice ancora Yunus – a cosa succederà al mondo dopo la pandemia. Continuo a cercare di attirare l’attenzione delle persone perché comprendano che si tratta di una grande opportunità per ricominciare da capo, staccandoci dai vecchi modi di fare le cose. Il nostro lavoro per costruire un nuovo sistema economico deve iniziare oggi perché domani sarà troppo tardi. La vecchia macchina economica è oggi disattivata dalla pandemia e dobbiamo approfittarne. Per noi è chiaro che dobbiamo uscire dal nostro attuale percorso suicida. Dovremmo ridisegnare il nostro sistema educativo per preparare i giovani a diventare imprenditori, invece di abbandonarli a inconcludenti ricerche di lavoro. L’intero sistema finanziario deve essere ridisegnato per supportare ogni giovane a diventare imprenditore. Sarà necessario immaginare nuove leggi per creare istituzioni finanziarie per l’imprenditoria sociale. Aspettare che la pandemia arrivi alla fine per avviare nuove iniziative è un modo sicuro per non assumerci la nostra responsabilità. Non cadiamo in quella trappola. Cominciamo adesso il nostro nuovo viaggio».
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