Quando un grande personaggio se ne va, viene la tentazione di usare superlativi, di usare le iperboli per facilitare il compito di ricordarlo. Con Monica Vitti, però, il superlativo è quasi obbligatorio, perché l’attrice, spentasi a 90 anni dopo un lungo periodo di malattia e di vita ritirata, era una delle più grandi dell’intero cinema mondiale, non solo di quello italiano, perché ha rappresentato per la nostra industria uno spartiacque rivoluzionario, quello della modernità.



Il modo di essere attrice di Monica Vitti era una novità per l’epoca, perché era figlio di un cambiamento epocale, delle nuove onde che si infransero sui film in tutto il mondo, perché accompagnò il cambiamento di un’intera forma d’arte con un viso bellissimo, ma inquieto e spigoloso, in cui non c’era traccia di divismo standard né la popolanità profonda di Anna Magnani: c’era una donna nervosa e fragile, una voce roca e toccante, un modo di comunicare le sue emozioni del tutto introiettato che trovò – dopo gli esordi in teatro e qualche ruolo di secondo piano – la sua esplosione con Michelangelo Antonioni, un sodalizio che le cambiò la vita e che portò alla ribalta internazionale il cinema d’autore nostrano, con una tetralogia composta da L’avventura, La notte, L’eclisse e Deserto rosso che raccontava il malessere di una società e di un preciso tempo storico, e lo raccontava in modi diversi, originali, in cui l’attore era un elemento estetico prima che il centro dell’attenzione dello sguardo.



Monica Vitti in quei film mostra lo spaesamento di una donna alle prese con l’incapacità tanto personale quanto sociale di esprimersi ed essere se stessa e lo fa con una recitazione del tutto nuova, in cui la fissità apparente dei suoi personaggi era la via per esprimere sentimenti e sensazioni figli del boom, per raggiungere un apice emotivo togliendo all’interpretazione tutti i mezzi più facili per raggiungere lo spettatore.

I quattro film di Antonioni lanciano Monica Vitti nell’Olimpo delle attrici che segnano un’epoca, come la Jeanne Moreau con cui condivide la scena in La notte, ma non le impediscono ancora di rivoluzionare la propria immagine, di scartare all’improvviso da un percorso stabilito: dopo il tentativo fallito di film d’azione con Modesty Blaise, il produttore Fausto Saraceni intuisce, o forse era al corrente dei suoi ruoli teatrali negli anni ’50, che dietro la maschera dell’incomunicabilità c’è una donna brillantissima, un’attrice capace di una verve unica, comunica quell’intuizione a Mario Monicelli il quale, nel ’68, chiama Monica Vitti come protagonista de La ragazza con la pistola e fu un trionfo: Monica Vitti è irresistibile nel ruolo di una donna siciliana, vittima delle convenzioni che scopre la modernità nel Regno Unito, strepitosa nel giocare coi luoghi comuni, nel piegarli alla sua verve affermando la propria femminilità.



La critica e il pubblico impazziscono, Monica Vitti vince tutti i premi possibili e da quel momento diventa il più fulgido talento comico femminile del cinema italiano, l’attrice totale capace di passare dal cinema iper-riflessivo di Miklós Jancsó a commedie ridanciane come L’anatra all’arancia, dalle raffinate linguistiche di Scola e di Dramma della gelosia alla rusticità di Il tango della gelosia, dal surrealismo di Buñuel (Il fantasma della libertà) alla pruderie di A mezzanotte va la ronda del piacere.

Resta però scolpito nella memoria collettiva degli italiani, prima del lieve declino artistico e del ritiro a inizio anni ’90, il rapporto professionale di Monica Vitti con Alberto Sordi che segnò il decennio ’70/’80 e segnò gli esordi dell’attore come regista, un trittico di film – Amore mio aiutami, Polvere di stelle (senza dubbio, il migliore dei tre) e Io so che tu sai che io so – in cui la vitalità dell’attrice, la sua profonda consapevolezza di donna e interprete aiutavano a bilanciare il moralismo (e il maschilismo) di fondo, che raggiunge l’apice nella famosa sequenza degli schiaffi sulla spiaggia in Amore mio aiutami.

Monica Vitti non fu semplicemente la bandiera del cinema italiano che si smarcava da classicità e neorealismi, e nemmeno l’esempio di una capacità virtuosistica di cavalcare ogni sfumatura dei suoi personaggi: è stata forse la più grande di tutte perché ha incarnato in modo sempre scintillante, sempre efficace, l’essenza di un’attrice, la sua devozione al personaggio, al lavoro che si fa per capirlo e per restituirlo, alla precisione con cui i gesti, le espressioni, i movimenti, i toni della voce devono coordinarsi. Senza mai farlo notare, sembrando sempre se stessa, senza nessun’altra possibile sfumatura, ma non sembrando mai uguale al ruolo precedente.

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