C’è una meravigliosa canzone di montagna, “La Ceseta de Transacqua”, di cui la maggior parte degli estimatori ed esecutori non conosce l’autore e le origini. Nonostante ciò, tantissimi la cantano volentieri, soprattutto in coro con gli amici, per la dolcezza, la bellezza e anche per il richiamo a una delle montagne più belle, il Cimon de la Pala, la cima più nota delle Pale di San Martino.



Eppure quel canto così armonioso e melanconico, che lascia nel cuore un senso di pace e d’infinito, non ha origini popolari remote, come sembrano adombrare la maggior parte delle partiture, ma è nato abbastanza recentemente, nel 1946, dall’esperienza di fede, impegno civile, sociale e politico di una giovane coppia, la famiglia costituita il 5 settembre 1946 dal vicentino Quintino Gleria (1913-1983), detto Tino, e dalla broglianese Stella Castellan (gennaio 1917- maggio 2020).



E, cosa apparentemente impensabile, l’occasione per riscoprire le radici umane e culturali della splendida canzone è stata offerta dal Coro Ai Preat di Busto Arsizio, la sera di domenica 31 maggio 2020, quando, in tempi di coronavirus, nell’ambito degli approfondimenti della conoscenza dei canti, una trentina di coristi si è collegata in internet, dalla Lombardia, con due dei figli di Quintino e Stella, cioè Francesca, detta Nanà, e Giovanni Battista Gleria, conosciuto da tutti come Titta, entrambi residenti in Trentino. Nanà e Titta erano rimasti colpiti dall’esecuzione del canto, disponibile nel sito internet del Coro lombardo. Naturalmente, già il nome di quel Coro, Ai Preat, mutuato dalla bellissima e arcinota canzone friulana, dice e sottintende molte cose sui coristi, ma non è questo il momento per approfondire l’argomento.



L’autore e l’ambiente

Però, prima di arrivare al racconto della nascita del canto “La Ceseta de Transacqua”, secondo la documentazione storica disponibile, sono da presentare, seppur brevemente, le figure di Quintino Gleria, l’autore della canzone, e della sua musa ispiratrice, cioè la moglie Stella Castellan.

Le notizie provengono dai ricordi appuntati dalla stessa Stella su un’agenda-diario nel corso di molti anni, riguardando quasi tutto il XX secolo, a partire dalla storia dei suoi genitori, che hanno vissuto la Grande Guerra, per giungere a quella della nuova famiglia formata con Tino. Quegli appunti sono stati trascritti dai figli nel 2017 e diffusi tra parenti e amici, in occasione del centesimo compleanno di Stella. Nel contempo, le notizie provengono anche dai ricordi familiari di Titta e di Nanà, raccontati in occasione della serata telematica con il Coro Ai Preat.

E, allora, ecco chi era Stella Castellan. Nata nel 1917 a Brogliano, nella valle dell’Agno, in provincia di Vicenza, sotto le Piccole Dolomiti, con la vista sul Monte Carega e sul Pasubio, la sua vita ha attraversato quasi tutta la storia del 900, partecipando agli avvenimenti civili, sociali, politici del nostro Paese, come, ad esempio, la Resistenza nella Seconda guerra mondiale, che ha vissuto in qualità di staffetta partigiana, la nascita locale dell’Azione Cattolica e poi della Fuci, la nascita della Dc.

Quintino, invece, arrivò a Brogliano nel dicembre 1943, come sfollato, dopo il primo bombardamento alleato di Vicenza, nel quale la sua casa venne danneggiata. Stella lavorava ad Arzignano e faceva la pendolare da Brogliano ad Arzignano, prendendo il trenino tutti i giorni. Anche Tino lo prendeva, ma per andare a lavorare a Vicenza. Così si incrociarono in stazione e Quintino attaccò bottone; poi, nel giro di qualche mese, si fidanzarono.

Mentre Stella partecipava alla Resistenza, Tino ne era fiancheggiatore esterno e i suoi amici erano dirigenti del Fronte popolare di liberazione.

Alla fine della guerra, entrambi si lanciarono nell’attività politica e nella primavera del 1946, impegnati in vista del referendum per la Repubblica, decisero di spostare il matrimonio a settembre, per poter fare la campagna elettorale.

Il matrimonio, il viaggio di nozze e la nascita della canzone

Finalmente, il 5 settembre 1946 si sposavano a Brogliano, avendo come celebrante monsignor Giovanni Lucato, vescovo di Isernia e Campobasso, cugino del padre di Stella, mentre tra i quattro testimoni di nozze figuravano il tre volte ministro Mariano Rumor e l’avvocato Giacomo Rumor. Poi, finiti i partecipati festeggiamenti, partirono per il viaggio di nozze, due giorni a Venezia seguiti da una settimana a Fiera di Primiero.

Proprio durante la luna di miele, come ha scritto Stella nel suo diario, confermata dall’articolo di Gianni Pieropan comparso nel numero di aprile-giugno 1972 della rivista di vita alpina Giovane Montagna, ha visto la luce la canzone “La Ceseta de Transacqua”.

Infatti, Titta e Nanà Gleria, nella serata con il Coro Ai Preat, hanno ripercorso in questi termini i racconti dei genitori: “Un giorno, tornando da un’escursione al passo Rolle, Stella e Tino si sono fermati in vista della Ceseta de Transacqua, sedendosi su una catasta di legna, e, ispirato dalla veduta sul Cimon de la Pala, Quintino ha iniziato a comporre i primi versi, guardando Stella. Poi ha cominciato a fischiettare il motivo, dando vita all’armonia. Tornato in albergo, ha continuato a fischiettarla, scrivendone il testo. Pochi giorni dopo, tornati a Vicenza, alla riunione della Giovane Montagna, Quintino ha cantato la canzone e, probabilmente, qualcuno ha scritto le note su uno spartito. A casa Gleria non abbiamo mai visto lo spartito della canzone, perché Tino suonava ad orecchio. Probabilmente – prosegue il racconto di Nanà e Titta Gleria – con Gianni Pieropan hanno definito il testo e la musica. Da questo punto di vista, si può parlare di un canto popolare. Però, a Quintino, i copi lustri de tant’acqua ricordavano gli occhi chiari della giovane moglie. Quindi, la descrizione della Ceseta sotto l’acqua, nel pensiero di Tino, rimandava alla bellezza di Stella, divenuta sua moglie da pochi giorni”.

Le dimensioni umane in cui è nata la canzone

Titta Gleria, sempre nella serata con il Coro Ai Preat, ha descritto “la Ceseta de Transacqua come una canzone d’amore, perché i miei genitori erano in viaggio di nozze. È vero, c’è anche la dimensione religiosa, che supporta questa dichiarazione d’amore e che coglie la natura, le montagne, la pioggia, il tempo così mutevole in montagna, l’immagine del Cimon de la Pala mentre esce dalla copertura delle nuvole. Nella canzone c’è tutto questo dialogo della montagna, della roccia, con la natura, con le nuvole che la coprono, per nuovamente ricomparire, con il tramonto che fa diventare rosa la roccia, mentre il sole ne trasforma i colori, da gialla a rosata, infine bianca. Mio padre, come scalatore, era stato molte volte a Fiera di Primiero e aveva dentro di sé, in modo spiccato, il rapporto con la roccia, con la montagna. Perciò, quando gli è nata dentro la canzone, aveva in mente tutti i cambiamenti nell’immagine del Cimon de la Pala che aveva visto in tanti anni, in situazioni diverse. Del resto, Tino aveva sofferto di tisi, malattia molto diffusa all’epoca, e ha passato alcuni anni in sanatorio. Molti suoi amici vi erano morti, mentre lui si è salvato. Il rapporto con quella malattia che mette una scadenza alla vita, rispetto ai sogni che si possono avere a 20 o 30 anni, lo ha posto in relazione con la fede, portandolo a dare un valore particolare alla vita e alle cose. Per mio padre la montagna era proprio la dimensione della libertà, del benessere, della preghiera, del rapporto con il soprannaturale, con l’amore, che è una dimensione fisica, ma anche spirituale. La montagna è fatica, rapporto fisico con la roccia, è contemplazione, è ascesi, sia fisica che spirituale”.

La diffusione

Ma fu Toni Gobbi – prosegue Titta – il noto alpinista veneto trasferitosi a Courmayeur, dove faceva la guida alpina, deceduto negli anni 70 per una slavina sul Sassopiatto, a far conoscere la canzone in Piemonte e Val d’Aosta. Infatti, Quintino non fece mai nulla per asserire che aveva composto e musicato la canzone. E accadde pure che, a metà degli anni 60, qualcuno disse a Tino che la sua canzone era stata incisa su disco e lui ritornò a casa con il disco del Coro Monte Cauriol, “I canti del rifugio”. Sentì per la prima volta la canzone cantata da un coro; rimase a bocca aperta, estasiato, e disse “sembra una musica sacra”; era contento che la canzone, a distanza di 20 anni, avesse fatto strada, senza che nessuno l’avesse spinta.

E anche i coristi del Monte Cauriol, di Genova – ha concluso Nanà Gleria – “non conoscevano le origini della canzone, come nemmeno Bepi De Marzi, il grande compositore e direttore dei Crodaioli, nativo di Arzignano in prossimità della Valle dell’Agno. L’ha scoperto qualche anno fa”.