La storia del grande alpinismo piace riassumerla per grandi epoche, come qualsiasi storia, anche quella dell’umanità. L’epoca delle prime grandi conquiste, poi delle pareti inviolate, l’epoca d’oro del sesto grado, l’ultimo grande problema delle Alpi, gli ottomila, poi le grandi pareti impossibili degli ottomila, poi d’inverno, oggi i free solo sull’undicesimo grado, domani sicuramente qualcos’altro. Per trent’anni nel secolo scorso la parete sud del Lhotse (8.516 m) ha rappresentato la sfida più ambita da qualsiasi alpinista e nazione al mondo, finché non fu superata nel 1990, da una squadra sovietica con la guida ucraina di Alexander Shevchenko (nessuna parentela col calciatore e il tennista). Pazzeschi, a considerarli adesso in piena guerra, i corsi e ricorsi della storia. L’alpinismo fuga dalla realtà? Macché, l’alpinismo e la montagna sono la realtà, vanno oltre la realtà.



Così Edward Morgan ha scritto Lhotse South Face. La parete leggendaria, che Corbaccio ha tradotto e pubblicato a tempo di record per il compleanno della meritoria collana Exploits, che compie ora 50 anni. Un libro notevole, con molta passione e la tradizionale precisione e documentazione anglosassone. Ma non c’è solo la prima salita ucraina-russa del 1990 a rendere memorabile questa parete nella storia. C’è che pochi mesi prima il fortissimo polacco Jerzy Kukuczka (1948-1989), che aveva perso per un soffio la sfida con Messner per i 14 ottomila, lì era precipitato e morto per la perdita di un appiglio a un soffio dalla cresta finale. C’è che pochi mesi prima il fortissimo sloveno Tomo Česen l’aveva superata da solo. Ma senza foto, senza prove, con resoconti via via più contraddittori. E la sua prima ascensione fu messa sub judice, poi semicancellata dagli archivi. Resta uno dei grandi enigmi della storia dell’alpinismo, uno dei grandi misteri quasi-irrisolti. Come Mallory sull’Everest, Maestri e il Cerro Torre, lo stesso Česen (guarda caso) sullo Jannu.



Anche adesso, la sud del Lhotse resta una sfida ancora aperta per gli alpinisti, perché i sovietici la vinsero solo con l’ossigeno e la piramide verticale della vetta fu alla fine aggirata, non superata direttamente. Così come la parete sud del Dhaulagiri (8.167 m), che Tomaz Humar (1969-2009), altro fortissimo sloveno, salì ma senza scalare il tratto finale, il più difficile.

Oggi sono gli ultimi grandi problemi alpinistici, finché non ne nasceranno altri, ancora più temibili. Come scrisse Platone nel Simposio (ci ricorda Morgan), “gli uomini sono presi da uno straordinario amore di diventare famosi e di acquistare per l’eternità dei tempi una gloria immortale, e per questo sono pronti ad affrontare qualsiasi pericolo più ancora che per i loro figli, e a dilapidare i propri beni e a sopportare qualunque fatica e a morire”.



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