Correva l’anno 1900. La Val di Fassa era una remota periferia dello sterminato impero austroungarico, dove si parlava italiano e soprattutto la dolomitica lingua ladina. Vallata povera, dove ai rari turisti venivano affittate le stanze migliori delle case e gli abitanti nell’occasione andavano a dormire nelle stalle. Tutto cambiò nel 1909, quando fu realizzata la Grande strada delle Dolomiti ideata dal viennese Theodor Christomannos, che da Bolzano a Cortina attraversava anche la Val di Fassa e vi portò un relativo benessere, con l’afflusso in auto di ricchi turisti tedeschi, austriaci, inglesi. Si ristrutturarono e ampliarono le case, nacquero i primi veri alberghi.



Nel 1900, appunto, a Canazei era nato Luigi Micheluzzi, sin da bambino (orfano di padre a sette anni) pastore sui prati dei passi Sella e Pordoi, per poi diventare una delle guide alpine più apprezzate e famose delle valli trentine, quasi come il celebre Tita Piaz, della vicina Pera di Fassa, e uno dei più grandi alpinisti italiani di tutti i tempi. Molto noto nell’epoca d’oro del VI grado, a cavallo degli anni 20 e 30 del secolo scorso, fu poi quasi dimenticato, un po’ come Giovanni Battista Vinatzer della vicina Val Gardena, perché come lui non pubblicizzava per nulla le sue imprese, a stento pubblicava dopo mesi qualche riga di relazione su bollettini locali. Ora gli rende giustizia un’affettuosa biografia scritta dal pronipote Luca Micheluzzi (Luigi Micheluzzi. L’arte della semplicità e del sesto grado, pubblicata a Bolzano da www.longo.media), anch’egli fassano e alpinista, ricca di persone, fatti, fotografie d’epoca che fanno rivivere la vita di montagna di un secolo fa.



Piccolo e forte, Luigi con gli anni diventò una guida sempre più apprezzata e ricercata, tra i suoi clienti re, senatori, ministri, cardinali, e tanta gente comune. Del re Leopoldo del Belgio disse poi che “era solo un grande nome ma come alpinista non valeva niente, dovevo tirarlo su come un sacco anche sul terzo grado”. Nessuno dei suoi clienti ebbe mai un incidente, mentre lui stesso partecipò nella sua carriera a più di duemila interventi di soccorso alpino, per i quali ebbe anche la medaglia al valor civile. Come alpinista era ai vertici tra gli italiani di quegli anni, di livello almeno pari a celebrità come Emilio Comici. Due le sue “prime” più eclatanti. Nel 1929 la direttissima sud della Marmolada di Penìa, una riga diritta dalla Forcella Ombretta alla cima, insieme all’amico e guida Beto Perathoner e al cliente Demeter Walther Christomannos (sì, proprio il figlio del pioniere della Grande strada).



Micheluzzi usò in tutto sette chiodi su 600 metri verticali, di cui tre per assicurarsi in un gelido bivacco in piedi e in maniche di camicia. Nei decenni successivi, si ritenevano indispensabili per quella scalata almeno 30 chiodi. Ma un ricordo amaro della salita, secondo Luigi, fu che “porca miseria”, sull’arduo tetto dopo il bivacco caddero dalla tasca nell’abisso una salsiccia e soprattutto la preziosa pipa. Dai pochissimi ripetitori negli anni successivi la via fu giudicata più difficile della Solleder alla Civetta e anche della Comici-Dimai alla Nord della Cima Grande. Poi nel 1935 la sud del Piz Ciavazes, famosa muraglia gialla e grigia sopra Passo Sella, con Ettore Castiglioni. Lì, come unico mezzo artificiale oltre ad appena cinque chiodi, Luigi si portò un cucchiaino da caffè, che usò per ripulire buchini e fessurine prima di infilarci i chiodi.

Tra le tante avventure in parete, anche alcune amorose, e assai curiose. Nelle Pale di San Martino, la sua cliente sullo spigolo del Velo fu in un’occasione una ricca signorina americana, che si ruppe i calzoni nel bel mezzo dell’ascensione. Micheluzzi le diede i propri, rimanendo in mutandoni (lunghi). Colpo di fulmine: arrivati in cima, lei lo bacia e gli chiede di sposarlo. Lui declina cortesemente l’offerta, essendo già felicemente coniugato. Ma l’americana non demorde e tornati a Canazei va dalla signora Micheluzzi e offre mezzo milione di lire (cifra astronomica negli anni Trenta) per lasciar libero Luigi e poterlo portare seco negli States. Non se ne fece nulla.

Un’altra storia, dal finale in qualche modo opposto. Una contessa amica di Luigi, con cui fece tra l’altro due “prime” al Pordoi, proprietaria di una villa al Passo Sella, durante la Seconda guerra mondiale salvò un aviatore americano caduto nella zona col suo aereo, lo nascose ai tedeschi nella sua villa e se ne innamorò perdutamente. Lui poi riuscì a fuggire negli Usa, lei invece fu denunciata e incarcerata a inizio 1945 nel lager di Bolzano, ma finita la guerra e liberata andò negli Usa per ricongiungersi con l’amato aviatore, nel frattempo tornato nei panni civili di professore di filosofia ad Harvard. Il lieto fine purtroppo non coinvolse la bella villa sotto Passo Sella, che abbandonata a sé stessa cadde ben presto in rovina.

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