Caro direttore,
Stefania Mondini è tornata alla casa del Padre alcuni giorni prima che iniziasse il Meeting di Rimini a cui ha dato un contributo notevole partecipando alla realizzazione della mostra sul K2 (“Siamo in cima! La vetta del K2 e i volti di un popolo”).

Il contributo umano di Stefania è stato molto importante: lei è stata al Campo Base del K2 nella spedizione del 2014 di cui racconta la mostra. La sua grande umanità e la sua capacità di rapporto sono stati fattori decisivi e qualificanti della sua presenza. Ci ha testimoniato cosa significhi andare in cima, non la performance del singolo, non la forza e le capacità di uno, ma il suo far parte di un’amicizia, di un rapporto dentro il quale ognuno cammina verso la “sua” cima.



Stefania è la testimonianza vivente dell’umanità che traspare dentro la mostra, la sua presenza così discreta e attenta è il segno di che cosa significhi un’avventura in montagna, un camminare insieme per realizzare il proprio desiderio.

E per Stefania andare in cima significava gioire del fatto che qualcuno dei suoi amici scalasse la montagna. Gioire e servire chi andava in cima, guardarlo con la meraviglia di chi gusta l’impresa dell’altro e sa di essere importante per la sua realizzazione.



L’umanità di Stefania la si può trovare nel racconto che ci ha lasciato della vita al campo base nel 2014 e che rappresenta il suo testamento spirituale.

Lo si può leggere tra i contributi della mostra sul K2.

“Il campo base è, parafrasando la nota canzone, ‘un centro di gravità permanente’: tra il basso, da dove gli uomini provengono con il respiro corto perché non acclimatati, e l’alto, dove vogliono andare inseguendo il loro sogno; tra la tensione dell’alpinista in azione e la calma della riflessione, tra il cibo preparato dal cuoco con cipolle, verze, patate e lenticchie e quello sincopato dei fornelletti in alta quota, delle brodaglie e del tè che ha il sapore del brodo. È il freddo polare quando ci si infila nel sacco a pelo gelato e si battono i denti, è il tepore, quasi il caldo, delle belle giornate con il sole che picchia sulla tenda dove indugi e in pochi minuti la riscalda, dove un ragazzo gentile ti offre il ‘chai’ fumante, dove vai a fare la pipì in una tendina sospesa che sembra un missile con sotto un serbatoio. La colazione al campo base diventa un piccolo rito, ti riporta tra i piaceri umani, il caffè della moka, marmellata e miele, il pane tostato e muesli. Al campo base i pensieri rallentano, si mettono in ordine e se c’è il sole ti vien voglia di lavarti, di curare i capelli, le mani, l’acqua sembra penetrare nei pori della pelle, la crema per il viso irritato dai raggi potenti, dal vento, dalla mancanza di umidità. Il cuoco ti chiede del pranzo e ti senti la padrona di casa con il potere di decidere il menù della giornata. La parola al campo base pare avere un significato più profondo, sarà l’aria sottile o il tempo rarefatto, ma sedersi al sole, o al riparo dal sole, per parlare, al campo base ha l’antico gusto del chiacchierare seduti fuori dalla porta di casa, dove tutti sanno tutto di tutti, eppure c’è tanto da dire. Cose lontane dell’Italia, delle famiglie, ma anche quelle quotidiane della spedizione, chi c’è, chi va, chi sale, i pronostici, non tanto sulla cima, piuttosto sul meteo. Siamo insieme al campo base, io, donna, con dei giovani amici alpinisti pakistani e italiani. C’è curiosità, c’è il condividere spazi e cibo, c’è la passione, grande e potente che attrae tutti verso la vetta. Il campo base è il tuo, ma c’è anche quello delle altre spedizioni e allora nella noia delle giornate bigie, o anche assolate quando sulla montagna ‘si lavora’, si va in visita agli altri campi, al genere umano che quassù per alcune settimane prova a salire una montagna. Non mi perdo una partenza dal campo base, all’alba, quando il fornello della cucina inizia a fischiare, mi metto il piumino e i pantaloni di pile ed esco fuori a prendermi lo schiaffo dell’aria gelida, a guardare le stelle che pian piano sono assorbite dalla luce che aumenta, una tazza calda e fumante in mano. C’è rumore di ferro e ghiaccio, ci sono voci concitate di uomini che si muovono a scatti con le frontali accese, c’è odore di caffè. Poi tutto si ferma, gli uomini e gli zaini, le tende illuminate, forse anche le stelle. Taqui ha chiamato Hassan, Mehdi, Sadiq e Ali e tutti gli altri attorno a sé, ci sono anche Michele, Simone e Daniele con la telecamera in mano, ci siamo anche Ago ed io: l’urlo è potente: ‘K2 Zindabad’, ripetuto più volte, poi il nome di tutti seguito dall’esortazione ‘Zindabad’, ‘lunga vita’. La vetta è la ricompensa, è il momento della felicità per tutti; al campo base esplodono i cori, gli abbracci, i balli al suono dei bidoni di plastica battuti con i cucchiai; si festeggia con una torta quanto mai gustosa, è il tempo della commozione. Si torna a casa”.



La ricordiamo così, che torna a casa, con uno sguardo di tenerezza a ciascuno di noi, quella tenerezza che ha portato tra gli amici che hanno fatto la mostra del K2.