In un sabato imprecisato del Settecento, un parroco svizzero amante della caccia (il suo nome ci è ignoto) si inoltrò in un ghiacciaio del Vallese e cadde in un crepaccio, salvando solo il fucile oltre a se stesso. La domenica i devoti parrocchiani, non vedendolo arrivare per la messa, organizzarono ricerche e, grazie alle tracce nella neve fin sull’orlo del crepaccio, il buon prete fu tratto in salvo con le corde dopo essere sopravvissuto ventiquattr’ore nel gelido buio. L’episodio ci è noto solo perché nel 1756 fu riportato nell’Encyclopédie illuminista alla voce “Glaciers” e soprattutto perché ce lo racconta oggi Andrea Zannini nella sua bella Controstoria dell’alpinismo appena pubblicata da Laterza/Club Alpino Italiano. Una controstoria che è in realtà una sociologia dell’alpinismo dei pionieri, lungo un solco di ricerca che dalla “storia dal basso” cara a Brecht va per la feconda scuola degli Annales di Braudel e Le Goff.



Per Zannini la storia della conquista delle montagne non deve basarsi sugli scienziati-alpinisti del Settecento o sui celebri e benestanti inglesi dell’Ottocento, ma è fondata sugli umili e spesso sconosciuti valligiani che per secoli hanno percorso le valli alpine e “vinto” per primi tante grandi cime, anche se poi passarono alla storia solo i nomi, spesso di molto posteriori, dei conquistatori famosi, che avevano il decisivo vantaggio di lasciare resoconti scritti delle loro avventure.



Parroci, fabbri, falegnami, pastori di paesini d’alta quota, temerari cercatori di cristalli e camosci, militari inviati in missioni topografiche: sono stati tante volte i primi salitori delle cime, spinti non solo dai propri mestieri ma anche dal desiderio di andare a vedere cosa c’è più su. Loro, in ogni caso, sono stati i veri profondi conoscitori per secoli dell’ambiente alpino. Opera meritoria questa di Zannini, ben documentata con competenza e passione. La tesi di fondo è, appunto, che i grandi nomi della scienza e dell’alpinismo del Sette-Ottocento non aggiunsero nulla o quasi al patrimonio di esperienze che da secoli era già proprio dei montanari.



Chi fu, allora, il primo vero alpinista (più o meno misconosciuto) nel senso pieno di questa parola, cioè di “conquistatore dell’inutile”, mosso solo dalla passione per la vetta e per la montagna in quanto tali? Forse il sacerdote benedettino e alpinista Placidus Spescha, svizzero, che tra fine Settecento e inizi Ottocento esplorò instancabilmente le sue montagne. Scrisse anche una guida pratica di scalata, che restò ahimè un manoscritto senza alcuna diffusione. Oppure i fratelli valligiani Meyer, che nel 1811-1812 conquistarono Jungfrau e Finsteraarhorn, i due colossi più ambiti dell’Oberland bernese. O Joseph Pichler, cacciatore di camosci e (forse) contrabbandiere della Val Passiria, che all’inizio dell’Ottocento diventò il “padrone dell’Ortles”.

C’è, però, da fare un’osservazione di fondo a tutta la ricostruzione “dal basso” della storia alpinistica. Ed è che a rendere la storia dell’alpinismo – di questa, stupenda, inutile, a volte mortale conquista – degna di essere raccontata, è appunto il racconto delle loro imprese che ne fanno i protagonisti e i loro compagni di cordata. Per questo, bene Zannini, che ci dispiega le pieghe nascoste delle montagne, ma il suo libro non può essere lasciato solo sullo scaffale, va per forza accompagnato da storie dell’alpinismo classiche, come quelle di Bonington o Frison-Roche o ancora, per noi italiani, quella insuperabile di Motti e quella recentissima di Gogna. Quindi omaggio e onore al merito dei valligiani sconosciuti che spesso per primi raggiunsero le vette, ma purtroppo non ci lasciarono racconti. E per questo la loro storia ci emoziona meno.

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