Non credo ci sia dolore più grande della morte di un figlio. E più grande ancora se il figlio muore come i ragazzi del Liceo Frisi di Monza: due bravi ragazzi, seri, studiosi, impegnati, morti perché erano stanchi di vivere. E allora bisogna parlarne con infinito rispetto, infinita cautela, infinita discrezione.

Ma una cosa bisogna pur dirla: come fanno i ragazzi a crescere in un mondo come quello che noi – noi adulti – abbiamo costruito?



Per spiegarmi, prendo in prestito un’immagine del mio amico Franco Nembrini. Quando legge Pinocchio, Franco si sofferma sempre sul capitolo in cui il burattino, spinto dalla fame, si avventura nella notte in cerca di un boccone di pane. Arrivato al paese vicino, Pinocchio “trovò tutto buio e tutto deserto. Le botteghe erano chiuse; le porte di casa chiuse; le finestre chiuse, e nella strada nemmeno un cane. Pareva il paese dei morti”. E il paese dei morti, chiosa Franco, è l’immagine che i nostri ragazzi hanno del mondo degli adulti. Perché, quando un ragazzo comincia a muoversi nel mondo con la sua fame, col suo desiderio di un significato, col bisogno di qualcosa che dia senso alla vita, che adulti si trova davanti (il più delle volte, certo, grazie a Dio le eccezioni ci sono; ma sono appunto eccezioni)? Adulti lieti, adulti appassionati alla vita, adulti che vien voglia di imitare, di prendere a modello, di “spiare” per scoprire come fanno a essere così contenti?



Ahinoi, no. Il più delle volte, i nostri ragazzi si trovano davanti adulti scontenti, brontoloni, musoni. Adulti intenti a lamentarsi di tutto – del governo, del tempo, del lavoro, della cattiveria dei tempi… Adulti intenti a difendersi dal mondo, che insegnano ai figli a fare altrettanto (“e hanno messo dei sacchi di sabbia / vicino alla finestra”, cantava profetico Lucio Dalla). Adulti “autorevoli” – giornalisti, insegnanti, politici – che fanno a gara a chi disegna gli scenari più apocalittici, più catastrofici, dai cambiamenti climatici alla fine della civiltà occidentale a chi più ne ha più ne metta. Adulti che, nel migliore dei casi, come unico antidoto alla cattiveria dei tempi e del mondo indicano la strada del successo individuale – “studia, studia, perché solo chi studia fa carriera” – o di un moralismo tanto benintenzionato quanto astratto – le educazioni civiche, le lotte contro i bullismi e per le integrazioni e via moraleggiando. “Il paese dei morti”, appunto.



Soprattutto, i ragazzi non trovano nessuno che prenda sul serio il loro bisogno più grande, più vero. Il bisogno umano fondamentale, il bisogno di un senso per la vita, di una ragione grande, bella, nobile per cui valga la pena di fare anche tutte le altre cose, il bisogno di una risposta all’altezza della dimensione infinita del loro desiderio di bene, di bello, di vero. Chi, oggi, è disposto a prendere sul serio questa domanda umana fondamentale, a coinvolgersi con i ragazzi nel cammino per rispondere, a mostrare nella letizia del volto – nella letizia del volto, non nella rivendicazione acida – che c’è una strada che si può percorrere insieme?

Nessuno prende sul serio le domande vere dei ragazzi. Tanto che, senza un interlocutore che li aiuti almeno a formularle, spesso non hanno nemmeno le parole per esprimerle. Nessuno più parla dei desideri elementari di bene, di bello, di vero, e i ragazzi nemmeno più sanno almeno gridarli. Sentono solo, da qualche parte, tra cuore e ragione, un’inquietudine che nessuno studio, nessun successo, nessun impegno civile e politico può soddisfare.

E allora, quando questo buco senza nome si fa troppo grande, confusamente sentono che senza una risposta a queste domande la vita non ha senso. E allora qualcuno – molti, la stragrande maggioranza – accetta di vivere nel paese dei morti, di rinunciare a quelle domande, di adeguarsi. E qualcun altro decide, come i due studenti del Frisi, che una vita senza senso non ha senso che sia vissuta.

E allora forse i due studenti del Frisi sono morti perché, nel paese dei morti, erano gli unici vivi.