Francesco Moraglia, il patriarca di Venezia, ha parlato con Avvenire della tragedia avvenuta a Mestre la scorsa notte, quando un bus è precipitato da un cavalcavia causando 21 morti e decine di feriti. È stato, d’altronde, tra i primi ad arrivare sul luogo dell’incidente una volta appresa la notizia, per condurre una veglia di preghiera silenziosa e rispettosa davanti alle salme, mentre i soccorritori erano ancora intenti alle operazioni di messa in sicurezza dell’area e recupero delle vittime.



“Il pensiero”, spiega Moraglia nella sua intervista ad Avvenire, “va immediatamente alla precarietà della vita umana, nonostante le conquiste e le nostre presunte sicurezze. L’uomo è davvero come l’erba e i fiori del campo, un soffio”, come testimoniano, inoltre, altre tragedie attuali, come “il Covid, la guerra in Ucraina o il fenomeno strutturale delle migrazioni”. Ritiene anche che simili tragedie dimostrino come “l’uomo spesso pensa d’esser giunto a un punto in cui è pienamente garantito e tutelato”, ma purtroppo erroneamente. “Abitiamo”, spiega ancora Moraglia, “la società della tecnoscienza e delle intelligenze artificiali eppure la domanda più umana che si possa fare è: perché il dolore” che non ha ancora nessuna risposta, ma “proprio per questo, come credenti, ci apriamo all’oltre di Dio“.



Moraglia: “L’incidente di Mestre ci ricorda che siamo fragili”

La tragedia di Mestre, sostiene ancora Moraglia, “ci ricorda che siamo tutti fragili, a rischio e, nello stesso tempo, responsabili gli uni degli altri” ragione per cui è necessario “nutrire un rispetto ‘sacro’ per la nostra vita e per quella di ogni uomo assieme a un sano senso del limite”, ricordando come “limite e umiltà sono, alla fine, la cifra e la garanzia della vera umanità”. Di quella terribile sera, però, gli rimane impresso un ricordo, struggente, “l’immagine dei corpi delle vittime in fila, coperte da teloni. Tra loro due sagome più piccole”, quelle dei bambini.



Contro le sfide, il dolore e i problemi, sostiene ancora Moraglia, “la fede ci aiuta a riscoprire il senso del limite, inteso come cifra del nostro essere creaturale, e ci rende consapevoli della precarietà e della fragilità che appartengono alla nostra condizione umana”, ricordando ogni giorno che “siamo creature, non Dio, non siamo onniscienti” e che “sconfitte e sofferenze, come gioie e speranze, fanno parte della nostra vita”. Tornando, in chiusura, alla tragedia di Mestre, Moraglia ci tiene anche a sottolineare che “dinnanzi al dramma della morte o sta in silenzio o si prega e ci si affida al Signore insieme alle vittime, ai feriti, ai familiari e a tutte le persone accomunate dalla tragedia”.