Mario Morì è un indagato necessario. Senza il suo nome iscritto come incolpato di reati gravissimi non ha senso nessuna delle tesi accusatorie che da decenni attraversano il Paese: la riscrittura dei fatti delle stragi e la necessità di mettere lo Stato, o i suoi esponenti, sul banco degli imputati. Lui, uno che ha parlato con il male assoluto, la mafia, è il testimone vivente di un fatto ormai mitologico: la trattava tra Stato e mafia, gli occulti poteri che portarono alle stragi e la conclusione di quel periodo con l’arresto anomalo di Riina. Tutto questo non è neppure ipotizzabile senza mettere di nuovo Mori sul banco degli imputati.



Senza questa inchiesta aperta, la storia resterebbe scritta nelle ultime sentenze della Cassazione di un anno fa. Secondo le quali non vi fu reato. E questo, secondo alcuni, non è accettabile. La Storia non può avere questo finale, non può limitarsi ad accogliere i fatti ed accettare le sentenze. Occorre qualcuno a cui si possa addebitare, anche nei prossimi lustri, almeno il sospetto di un’indagine aperta.



Sappiamo bene che quella è la parte peggiore della storia contemporanea del nostro Stato. Sappiamo che i rapporti tra politica, istituzioni e mafia furono per decenni un ibrido di poteri coagulati, forse, contro la minaccia dell’invasione comunista. Sappiamo che il potere mafioso non si è spento ancora e anche la morte di quasi tutti i suoi protagonisti non spegne i “cercatori della verità”. Tutto per arrivare alla condanna, alla sentenza.

Eppure nessuno pare aver colto la natura implicitamente fallimentare della strategia di attacco. Quella mafia agricola e violenta, rozza nei modi e feroce nelle esecuzioni, capace e spregiudicata, è il passato. E mentre noi inseguiamo quei fantasmi, la mafia nuova, fatta di denari messi in fondi di investimento, banche soggiogate, interi Paesi finanziati, prospera. Governa i traffici della droga mondiale, utilizza i denari per incidere e farsi plutocratica. Pizzo, armi e spaccio quotidiano sono il passato, praticato da accoliti di basso livello. Appalti e lavori pubblici ormai sono gestiti con le truffe sul PNRR e sui fondi europei spostati ad esempio in Slovenia o Moldavia, per poi essere trasformati in cripto e riapparire in Lettonia o nei Paesi del Golfo, dove spuntano società di investimento iper-liquide che poi acquistano aziende, ville e terreni ovunque.



Ma il tema, per troppi inquirenti, resta ancora il biennio 1992-1994. Omaggio a Falcone e Borsellino e tanti uomini morti per il valore della lotta a quei criminali. Ma Falcone istruì un processo per mandare in galera centinaia di mafiosi attivi pochi anni prima, seguiva i denari, braccava i mafiosi ovunque nel mondo e dava la linea per distruggere le loro ricchezze. Non inseguiva Lucky Luciano né i responsabili di Portella della Ginestra. Eradicava un male attuale conoscendone la storia anche senza avere in mano le sentenze. Isolato dai colleghi, lui, Falcone, scappò a Roma per fare il suo mestiere che non era di storico ma di uomo del fare, uomo di concretezza. Non spese anni per sapere chi avesse avvelenato in cella, su ordine di chi, il boss Giuliano. Si mise a vedere estratti conto e quote societarie.

Perciò, a che serve indagare Mori? Non al processo, che mai si celebrerà. Non alle indagini, che nel fumo denso delle voci di questi decenni si appoggiano su dichiarazioni antiche o fatti antichi. Indagare Mori non serve a distruggere la mafia che impera oggi. Serve a qualcuno per dire che la Storia la scrive lui o che, quantomeno, potrà dire di averci provato. Ma non serve indagarlo per sapere cosa accadde. I fatti li ha ammessi e spigati. Lo Stato in ginocchio, la paura ovunque, il tentativo di fregare i mafiosi a modo suo. Sui fatti di allora si può aggiungere altro, certo. Ma sui fatti di oggi, sulle mastodontiche ricchezze illecite che ogni anno la mafia gestisce, a che punto siamo? Forse a niente. Perché ci piace più studiarla e processarla, la Storia, che farla.

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