Che succede a Bruxelles? Potremmo forse avanzare questa domanda per diversi temi, trattati negli anni recenti dalla Commissione e dal Parlamento europei, ma certamente su quello energetico il quesito appare assai legittimo.
Si inizia con il pacchetto “Fit for 55%”: la riduzione delle emissioni dell’Ue di almeno il 55% entro il 2030 diventa un obbligo giuridico. Si passa quindi alla Tassonomia verde, per riconoscere agli investimenti in rinnovabili un supporto finanziario privilegiato. Subito un primo intoppo: la discussione, lunga e difficile, sull’inclusione di nucleare e gas nella tassonomia, con la battaglia-accordo tra Francia e Germania.
Poi l’asticella degli impegni Ue sulla decarbonizzazione accelerata, portata ancora più su, con REPowerEU, in risposta alla crisi energetica acuita dall’invasione russa in Ucraina: si accelera sulle rinnovabili, portando dal 40% al 45% l’obiettivo europeo al 2030, con particolare enfasi sul fotovoltaico, aggiungendo l’obbligo di installazione dei pannelli sugli edifici pubblici.
In seguito, la proposta della Commissione, approvata dal Parlamento Ue, di mettere al bando la vendita di nuove auto con motori a combustione interna dal 2035, obbligando di fatto alle auto elettriche: la giustificazione è l’obiettivo della neutralità climatica entro il 2050, per il quale occorre adottare misure di riduzione delle emissioni delle automobili, poiché il trasporto su strada rappresenta un quinto delle emissioni di CO2 dell’Ue.
Qui il secondo intoppo: dopo la forte critica alle politiche forzate del full-electric proveniente da fuori continente, dal Ceo di Toyota, ecco giungere quelle interne, con il Ceo di Stellantis ad esternare esplicitamente contro la direttiva. E se in un primo momento i costruttori tedeschi sembravano aver assecondato la forzatura, ispirata dal loro governo, in seguito la presidente dell’associazione industriale del settore (Vda) dichiarava senza mezzi termini che il Parlamento europeo aveva preso “una decisione contro i cittadini, contro il mercato, contro l’innovazione e contro le tecnologie moderne”. Fino al coup de theatre finale: il governo tedesco che si astiene nella votazione e il regolamento che viene rinviato.
Più di recente, il “giallo” della proposta Net Zero Industry Act, una legge per stabilire un set di misure utili a rafforzare la capacità industriale europea nelle tecnologie net-zero. In una prima versione, il nucleare è incluso: notizia che dovrebbe apparire scontata, visto che si parla di tecnologie a zero emissioni, ma che evidentemente così non è, se una seconda versione della proposta lo elimina. Difficile non scorgere una manina teutonica dietro l’accaduto.
A questo punto il commissario all’Industria, il francese Thierry Breton, responsabile della proposta, ordina la secretazione del documento, che riappare solo nella sua versione finale: compaiono allora le tecnologie net-zero “strategiche” (dal solare fotovoltaico a quello termico, dall’eolico sul suolo a quello in mare, dalle pompe di calore alle batterie, gli elettrolizzatori, il biogas, la cattura della CO2 per i combustibili fossili, sino alle reti intelligenti) e quelle “altre” (il nucleare e i combustibili alternativi). Per le prime si pone l’obiettivo e si identificano misure a supporto, per raggiungere al 2030 almeno il 40% di produzione europea del fabbisogno annuale di tali tecnologie. Per le “altre”, valgono alcune misure contenute nella proposta, ma senza obiettivi.
Da ultimo, il voto del Parlamento Ue per la direttiva “case green”: gli edifici residenziali dovranno raggiungere almeno la classe di prestazione energetica E entro il 2030 e la D entro il 2033. Primo passo di una procedura che si preannuncia assai complicata e contrastata, almeno sul versante italiano. Vedremo come andranno a finire questi capitoli di una lunga storia.
La morale? In ognuna di queste politiche, così come nei contrasti che le accompagnano, è possibile scorgere chiaramente un fil-rouge, o sarebbe meglio dire un leit-motiv. Anzi due. Una trama, fortemente ideologica verso il tema energetico, considerato unicamente quale problema ambientale, risolvibile solo attraverso una forzatura finanziario-legale verso le rinnovabili. E un attore protagonista, la Germania, che la trama ha concepito e spinto in scena.
Se non si cambia registro, considerando in modo neutrale la risposta tecnologica al problema e in modo completo le sue criticità, che sono sì l’aspetto ambientale ma anche quello strategico e quello economico, l’Europa è destinata a inseguire soluzioni costose, soprattutto per le fasce più deboli della popolazione, poco efficaci, eliminando nel migliore dei casi solo l’8% delle emissioni mondiali di CO2, e pericolose, con una dipendenza strategica che non si riduce ma cambia solo indirizzo. Sempre più a oriente.
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