Ieri il presidente turco Erdogan ha dichiarato che l’ex presidente egiziano Morsi è stato ucciso, ritardando volutamente i soccorsi all’interno della cella nella quale Morsi ha accusato un malore. Una evidente presa di posizione politica, sulla quale abbiamo cercato di far luce con Paolo Quercia, direttore del Cenass ed esperto di questioni strategiche.



Una dichiarazione fondata su qualcosa di vero, quella di Erdogan, o propaganda anti-egiziana?

Non credo che la frase di Erdogan si basi su alcun indizio concreto o su informazioni specifiche. È semplicemente un’allusione politico-mediatica ben calcolata, perché Erdogan sa come colpire l’immaginario del suo pubblico islamista globale di riferimento.



L’ha definita un’allusione politico mediatica. A che scopo?

Con questa frase Erdogan sostiene che Morsi ha subìto un processo politico ingiusto ed è morto in carcere privato della libertà personale, alludendo forse ad altri casi di persone scomparse in Egitto.

Erdogan da tempo agisce da solo: fa ancora parte della Nato, ma non ne segue l’impostazione; non è riuscito a creare alcuna alleanza con la Russia; in Siria ha appoggiato l’Isis; dove vuole portare la Turchia?

La Turchia sta cercando di ridurre al minimo i suoi obblighi verso la Nato, senza però alcuna intenzione di abbandonare l’alleanza. Di fatto Erdogan vuole ampliare le sue opzioni in politica estera, che non vuole più limitata dal fatto di essere sotto l’ombrello Nato, dove comunque vuole restare perché ne trae indubbi vantaggi anche nel trattare con gli avversari della Nato. Direi che c’è la volontà di essere un po’ più indipendente nella difesa del proprio interesse nazionale, e non solo di quello atlantico, e di poter essere un motore dell’islamismo politico.



E quanto alla Russia?

Quanto alla cooperazione di Erdogan con la Russia, oggi è buona, decisamente migliorata rispetto a pochi anni fa, ovviamente in parallelo con il deterioramento del rapporto con gli Stati Uniti.

E in Siria?

La Turchia ha giocato più partite contemporaneamente, ha cambiato più volte fronte e lo ha fatto in uno scenario estremamente confuso e di grave minaccia alla propria sicurezza nazionale.

Erdogan sogna una leadership in Medio Oriente?

La nuova politica estera turca è mossa da due grandi driver e non ha un’unica direzione di pilotaggio. Il primo driver è legato all’enorme ambizione geopolitica cosiddetta neo-ottomana, che vede la Turchia tentare di sviluppare un potere soft – economico, culturale, religioso, anche politico e in qualche caso militare – in un’area molto vasta che era quella che apparteneva, appunto, all’Impero ottomano fino alla sua dissoluzione. In questo progetto l’internazionalizzazione dell’islam politico turco è fondamentale.

Perché?

Perché va a rompere con il concetto di nazionalismo turco, che invece è più di matrice kemalista, basato cioè sulla lingua e sulla nazionalità turca. Potremmo quasi dire, basato sulla “turchicità”. Ma questo dell’egemonia neo-ottomana è un grande driver, che Istanbul sta perseguendo ormai da oltre un decennio, ma forse con un’ambizione superiore alle reali capacità del paese.

E il secondo driver che muove la Turchia?

È legato al fatto di come possa sopravvivere la Turchia in un Medio Oriente che è stato destrutturato dopo numerosi terremoti geopolitici, conflitti, implosioni di Stati e Primavere arabe. Tutta una serie di fenomeni che sono avvenuti a partire dal 2003 a oggi. E il 2003, con il conflitto in Iraq, è l’anno chiave di questo processo di destrutturazione del Medio Oriente. A differenza del neo-ottomanesimo, questa seconda componente del riposizionamento della politica turca non è una scelta, bensì una necessità in un mondo, ormai distrutto, che può portare instabilità all’interno della Turchia, fino a metterne in pericolo la stessa esistenza. Ecco perché in questo secondo driver si annida anche una parte di risentimento, di antagonismo con gli alleati occidentali di Ankara, accusati di aver commesso errori strategici in Medio Oriente, cioè nell’area estera più vicina ai confini turchi.

In Libia la Turchia è schierata con il Qatar a sostegno di Tripoli e Misurata: è in atto una guerra nel mondo sunnita tra Fratelli musulmani da una parte e sauditi wahabiti dall’altra?

Il conflitto in Libia non è tanto di carattere religioso, ma politico, legato al controllo delle risorse energetiche e soprattutto al futuro della Libia come Stato unitario, in contrapposizione proprio a quelle tendenze centrifughe che possono portare alla frammentazione del paese e a far sì che le varie regioni periferiche della Libia possano gravitare verso progetti statuali diversi. In questo contesto il ruolo dell’islam politico c’è, e la Turchia lo usa, ma mi sembra piuttosto strumentale rispetto ad altri interessi. In questo scenario l’Italia deve tenere presente che in Libia gli interessi italiani e turchi presentano numerosi punti in comune.

Con l’Iran che rapporti ha Erdogan?

Storicamente i rapporti con l’Iran sono stati piuttosto stabili e saldi, anche se le ragioni geopolitiche, e in particolare il fatto che sia Turchia che Iran sono due grandi potenze ex imperiali, in pratica i due grandi eredi della statualità musulmana in quella regione, fa sì che una piena collaborazione sia difficile. Vi è un misto di collaborazione e concorrenza, sempre latente. Non è facile per i due paesi costruire un’alleanza strategica, ma neppure abbandonarsi a un’inimicizia radicale.

Insomma, non possono essere né troppo buoni amici né troppo cattivi tra di loro?

Sì, è un pendolarismo tra competizione e collaborazione che per molti anni ha caratterizzato i rapporti tra i due paesi e che probabilmente continuerà ancora in futuro. Ma il peggioramento dei rapporti con Usa ed Europa ha fatto sì che per la Turchia migliorassero i rapporti con Teheran. È giusto ricordare che l’Iran è stato uno dei primi paesi a condannare nel 2016 il colpo di Stato contro Erdogan e che la collaborazione investe tanti altri campi, a partire dalla lotta contro l’irredentismo curdo nella regione, che è un problema comune ai due paesi, e contro le minacce del terrorismo jihadista o dell’Isis o di altri movimenti di carattere qaedista, attraverso forme di sinergia tattica, anche se non sempre lineare, tra i due paesi, che in questo campo hanno interessi chiave da proteggere assai simili.

Iran significa anche dossier nucleare…

Infatti la Turchia, finché le è stato possibile perché alleata con gli Usa e membro Nato, ha sempre cercato di attenuare l’isolamento economico dell’Iran dovuto all’embargo per motivi di proliferazione nucleare che gli Usa e la Ue hanno più volte varato contro Teheran, come in questa fase. Ma oggi per la Turchia è più complicato sfidare l’embargo americano contro l’Iran, che Trump sta attuando in maniera molto marcata.

(Marco Tedesco)