Si è spenta ieri, all’età di 96 anni, Licia Pinelli. Era la moglie di Giuseppe “Pino” Pinelli, ingiustamente accusato della bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano, morto precipitando, nella notte fra il 15 e 16 dicembre 1969, da una finestra della questura di Milano.

La storia del ferroviere anarchico inizia proprio con la strage. Fu la madre di tutte le battaglie. È il 12 dicembre 1969, in una Milano che si appresta a celebrare il Natale, l’attività è frenetica nella banca di piazza Fontana, nei pressi del Duomo. Lo ricorda bene mia moglie che, proprio quel giorno, va a versare un assegno del padre. Esce verso le 15 mentre la bomba scoppia alla 16.37. È un ordigno che contiene sette chili di tritolo. Alla fine la conta delle vittime è straziante: 17 morti, 87 feriti.



La caccia agli esecutori dell’attentato inizia da subito. E una delle piste più seguite dagli investigatori è quella degli anarchici. Vengono fermati alcuni aderenti al Circolo della Ghisolfa. Fra questi un ferroviere, Giuseppe “Pino” Pinelli che, per motivi ancora non accertati, precipita dalla finestra della questura e muore.



Si innesca un processo alle intenzioni: Pinelli si è suicidato perché si sentiva in colpa per la strage, sostengono alcuni. Subito dopo viene arrestato Pietro Valpreda, altro anarchico, denunciato da un tassista milanese che sostiene di averlo scaricato con una valigia in mano proprio in piazza Fontana. Tutte ipotesi che verranno poi smentite clamorosamente.

Rimane la morte di Pinelli. E qui inizia un lungo processo mediatico contro i possibili autori di quel “suicidio”. In primis il commissario Calabresi che lo aveva arrestato. I cortei della sinistra extraparlamentare da quel giorno non si contano. “La strage è di Stato, Pinelli assassinato”, “Valpreda innocente, Pinelli assassinato: le bombe alla banca le ha messe il padronato”, “Calabresi assassino”: sono solo alcuni degli slogan gridati durante le manifestazioni.



A supporto, un folto gruppo di intellettuali, con a capo Camilla Cederna, scrive una lettera all’Espresso in cui indica nel commissario Calabresi – che non era nemmeno presente nella stanza da cui si buttò Pinelli – il responsabile della morte dell’anarchico. Una campagna d’odio che culmina nell’omicidio del commissario, il 17 maggio 1972, ad opera di un gruppo di militanti di Lotta Continua, fra cui Adriano Sofri.

Ecco allora il dramma di due donne: da una parte Licia, moglie di Pinelli, dall’altra Gemma Calabresi, moglie del commissario. Due donne accomunate dalla stessa sorte: una morte ingiusta frutto di una campagna d’odio.

Il 9 maggio 2009 il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, le invita alla celebrazione del Giorno della Memoria, istituito nel 2007 al fine di ricordare tutte le vittime del terrorismo, interno e internazionale. Una stretta di mano, nulla di meno, nulla di più, suggella l’incontro. Un gesto di riconciliazione e superamento di una stagione di odio ideologico.

Così Andrea Casalegno, figlio di Carlo, vice direttore de La Stampa, ucciso dalle Brigate Rosse, ricorda quel giorno: “Quel gesto non vuol essere un invito a lasciarsi alle spalle quei fatti nel nome della fraternità del dolore… Le Giornate della Memoria sono nate per impedire la rimozione collettiva di quei fatti lontani. Ma possono riuscirci solo se la sostanza umana del ricordo prevarrà ogni volta sugli aspetti rituali della celebrazione. La sostanza umana si è concentrata nella stretta di mano fra Licia Pinelli e Gemma Calabresi”.

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