Manco volendolo con tutte le sue forze a Matteo Messina Denaro sarebbe stato possibile tornare indietro e cambiare l’inizio della faccenda: l’acido, il corpo di Giuseppe Di Matteo, non l’avrebbe rimandato a mamma e papà. Nelle sue possibilità, però, c’era quella di iniziare da dov’era per cambiare il finale. O, per lo meno, per provare a cambiare un finale che la sua cocciutaggine aveva spoilerato anzitempo. Il male, in lui, ha esercitato un fascino barbarico. La sua è la storia di un uomo fottutamente geniale: nel male, ma pur sempre di genio si è trattato perché, come ricorda Calvino, anche il male tiene i suoi miracoli. E di “miracoli del male” Matteo è stato un messia minuscolo per la sua ciurma di seguaci. L’arresto, sfrontatamente preparato quando la morte ha iniziato a fare la passeggiata davanti casa sua, poteva essere la più grande delle opportunità: buttarla, a posteriori, è stato come sprecare l’ultima, la migliore, tra tutte quelle possibili. Ha scoreggiato in faccia al mondo intero, schifando tutti, beffando tutti: alla fine, però, quel male che l’aveva risucchiato, l’ha risputato fuori. È morto.
La notizia della sua morte – col disprezzo che la contorna – assomiglia ad una moneta che si getta ad un buffone dopo che ha finito la sua buffonata: “Tiè, beccati un soldo e taci, buffone!” pare dirgli in queste ore il mondo intero. Ma c’è una cosa più triste, per un animo, di vedersi gettare addosso una moneta da un soldo, o poco più: è voltarsi indietro, anche solo un attimo, e accorgersi che non c’è più nessuno da salutare. Nessuno, eccetto il paese delle tue bugie che ti sei raccontato e che, qualcuno, avrà pure assecondato: certe bugie, e il male lo sa bene, hanno bisogno di uno che le racconti e di altri che annuiscano nel sentirle raccontare.
A tradire uomini così – a tenerli lontani dalla clemenza di Dio – non è il peccato, ma il persistere nel male. Sposare il male – “Rinunciate a Satana? A tutte le sue opere? A tutte le sue seduzioni?” – ed elevarlo a sistema di vita: il fatto d’impedire a Dio, dopo avere fatto il male, di aiutarci a fare il bene. Che, è mistero della fede, certe volte riesce a nascere sopra le macerie del male più lurido e assassino. Essere peccatori è la nostra più grande miseria, sapere di esserlo è la nostra più grande speranza. C’è qualcuno, forse, convinto che pure il Cristo dei Vangeli temesse d’incontrare sulla sua strada Messina Denaro? Il sospetto, forse, è l’opposto: che lui abbia avuto paura di farsi trovare. Lasciarsi illuminare dalla Grazia che, quando s’accende, brucia. Ustiona la carne.
La cattiveria, sovente, non è male come punto di partenza: è paradossale, ma noi iniziamo ad essere buoni quando ci accorgiamo di esser cattivi. Si potrà giungere a Dio, alla felicità, anche dopo una serie interminabile di disgusti. La grande fregatura di Matteo, forse, sono state proprio le bugie: non tanto quelle raccontate agli altri, quanto le bugie raccontate a se stesso. La più grande delle quali resta anche la più tentacolare: che il male sia bene e il bene sia male. Una distorsione del cuore prima che della realtà: nessuno come colui che vive nella sporcizia si rende quasi mai conto di quanto sporca è la sporcizia. Quest’ultimo, poi, non sentirà mai il bisogno di un salvatore. È lui il salvatore di se stesso.
La sua morte fa rumore. Ci sono anime, oggi, che han bisogno del rumore di questa morte per ridirsi: “Io non sono come lui, non gli assomiglio!”. È una di quelle morti che distolgono l’uomo dal guardarsi dentro. Rifletto su Messina Denaro dopo una giornata trascorsa negli anfratti di una patria galera, tra i suoi simili. Penso alla cosa più appassionante che esista per me, da queste parti: toccare con mano la bruttezza e impedirle di imbruttire me. Ripensando alla sua morte, ripenso ad Hitler e mentre qualcuno canta vittoria, recito un requiem per entrambi. Fosse dipeso da me, non avrei voluto la morte di Hitler: avrei sognato vivesse più di me. Da ebreo, però. Anche Messina Denaro: però nelle vesti di Giuseppe Di Matteo. La morte è una soluzione affrettata, anche favorevole.
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