Nel pomeriggio del 25 marzo, durante la liturgia penitenziale nella Basilica vaticana, il Papa ha guidato l’Atto di consacrazione al Cuore immacolato di Maria della Chiesa intera, e in particolare della Russia e dell’Ucraina, in una preghiera molto partecipata da parte di fedeli, vescovi e sacerdoti di tutto il mondo. I nodi storici, religiosi e culturali costituiscono un aspetto molto importante e sono spesse volte sottovalutati nelle analisi sin qui svolte del conflitto in corso. Eppure, essi svolgono un ruolo assai significativo in quanto l’Ucraina è il paese ex-sovietico più legato alla “madre Russia”, insieme alla Bielorussia. Ne abbiamo parlato con don Stefano Caprio, sacerdote residente in Russia dal 1989 al 2002, uno dei massimi esperti italiani di Chiesa e Russia.



Don Stefano, l’Ucraina si considera un Paese europeo, che ha bisogno oggi più che mai del sostegno dell’Europa. La situazione attuale può essere la chiave per comprendere l’evoluzione dei complessi fattori etnici, religiosi, politici e geografici in gioco. Cosa ci può dire al riguardo?

L’Ucraina esiste come nazione indipendente solo dal 1991, dopo la fine dell’Unione Sovietica, ma già dalla metà dell’Ottocento coltiva un proprio spirito nazionale, ispirato da famosi poeti e scrittori come Taras Ševčenko e Nikolaj Gogol, e molti altri autori ucraini e russi di origine ucraina. Si tratta in effetti di una parte del popolo russo nel suo complesso, come anche si può dire per i bielorussi, ma è quella parte che ha sempre avuto rapporti più intensi con il resto dell’Europa, per la sua posizione geografica e anche per diversi fattori storici e sociali. Gli ucraini erano nei secoli passati i russi viventi sul territorio della confederazione di Polonia-Lituania, avversaria della Russia zarista nel controllo delle terre dal Mar Baltico al Mar Nero, ma anche espressioni etniche miste, slavo-asiatiche, che si organizzavano in territori “di confine” o marginali come quelli più meridionali della regione del Don, che vennero chiamati “cosacchi”, un termine kazako per indicare appunto gli “uomini liberi” che non volevano sottomettersi ai sistemi feudali di schiavitù della gleba.



Un Paese con funzione di cerniera tra Oriente e Occidente, dunque?

Sì. Per questa ragione un’altra caratteristica degli ucraini è stata la particolare capacità di sintesi culturale tra Oriente e Occidente europeo: a Kiev venne fondata nel 1620 l’Accademia teologica del metropolita Petro Mogila, che rileggeva la tradizione ortodossa con le categorie scolastiche latine fornite dai gesuiti polacchi, molto attivi nel contrasto ai protestanti. Da quell’accademia “Mogiliana”, come ancora oggi viene chiamata, nacquero tutte le istituzioni accademiche russe, fino all’università di Mosca aperta nel 1755 da un discepolo della scuola di Kiev, il grande scienziato e letterato Mikhail Lomonosov.



In questo contesto, quanto contava il legame con la “madre Russia” e come si è deteriorato in questi ultimi decenni?

Il legame è sempre stato piuttosto ambiguo e anche conflittuale, nel succedersi delle epoche e delle tante suddivisioni che hanno riguardato anche la Polonia, l’Ungheria, la Slovacchia, la Romania e il Caucaso, tutti Paesi che si sentono molto vicini all’Ucraina e in rapporti spesso problematici con la Russia. Il legame con la Russia moscovita, ai tempi degli zar, veniva imposto con campagne insistenti e oppressive di “russificazione” linguistica, culturale e religiosa, e anche con forme di colonizzazione, trasferendo cittadini russi laddove le etnie erano meno marcate o più composite, come la Crimea, la zona del Donbass e del Mar Nero-Mare d’Azov, cioè proprio gli obiettivi principali della “operazione militare speciale” di Putin. Negli anni sovietici queste politiche moscovite si sono ripetute con episodi anche molto tragici, come la carestia del Holodomor indotta da Stalin in Ucraina negli anni 30 o la riunione forzata dei greco-cattolici al patriarcato di Mosca nel 1946. La Crimea fu “donata” alla Repubblica sovietica ucraina dall’ucraino Khruščev sempre a scopo di “russificazione”, e tutte queste forzature hanno continuato ad alimentare un risentimento anti-russo, che ora sarà ancora più radicato per molte generazioni.

Kiev viene considerata la “madre di tutte le città russe”, il luogo del Battesimo cristiano del principe Vladimir nel 988. Ciò costituisce anche il primo storico motivo di conflitto tra ucraini e russi: i primi si considerano gli unici veri eredi della Rus’ primitiva, mentre Mosca viene ritenuta una potenza asiatica erede dei Khan. Questa distinzione è ancora così importante?

Kiev fu chiamata “madre delle città russe” dopo il Battesimo della Rus’ nel 988, ma poi la città venne rasa al suolo dai tataro-mongoli nel 1240, e solo in seguito sorse Mosca, che si attribuì lo stesso titolo quando ebbe la forza di ribellarsi ai tartari a partire dal Quattrocento, e divenne la sede chiamata a “raccogliere in unità tutte le terre russe”. I prìncipi di Mosca, poi gli zar e i patriarchi, venivano e vengono chiamati con la denominazione “di tutte le Russie”, intendendo gli antichi principati, e più recentemente del trio “Grande Russia, Russia Bianca e Piccola Russia”, come ancora oggi i russi amano chiamare l’Ucraina, la Malorossija.

Quando Kiev si è scoperta euroatlantica?

Negli anni sovietici Kiev era stata organizzata anche a livello urbanistico e architettonico come una “copia di Mosca”, laddove città occidentali come Leopoli o Ivano-Frankivsk hanno conservato l’aspetto austro-ungarico della loro storia precedente. Rimane fino a oggi un triangolo di capitali o “città-madri” della Russia: Kiev, Mosca e San Pietroburgo, che per due secoli è stata la “madre occidentale” e settentrionale. In verità, la Russia si specchia in tutte e tre queste metropoli, con la loro storia simbolica precedente e le loro differenze attuali: non c’è una netta distinzione “eurasiatica” o “euratlantica”, al di là della propaganda ideologica sviluppata da entrambe le parti, e soprattutto da Mosca. La vera Russia si avrebbe solo con una relazione aperta e rispettosa, in grado di arricchirsi reciprocamente con le diverse influenze e sensibilità, come avviene del resto per molti altri Paesi e regioni d’Europa e del mondo, ma oggi questa sintesi sembra allontanarsi sempre più, verso tempi quasi escatologici.

Il patriarca Kirill si trova tra due fuochi: da una parte Putin e dall’altra i confratelli ortodossi ucraini, con a capo il metropolita Onufryj. Non prendendo nessuna iniziativa Kirill non rischia di vedersi dimezzata la Chiesa e declassato il ruolo stesso del Patriarcato?

Il rischio per il patriarcato di Mosca è molto alto e i “fuochi” della divisione non sono soltanto con gli ucraini, ma interni alla stessa Ortodossia russa, dove esistono settori ancora più radicali e fondamentalisti – ad esempio, i grandi monasteri -, ma anche realtà molto più liberali e dialoganti tra il clero e i laici, soprattutto nelle grandi città. Il patriarca Kirill proviene da questi ultimi, ma ha dovuto impersonare un ruolo molto accentratore e patriottico per assecondare la politica statale putiniana, che all’inizio trovava ispirazione nella Chiesa, per poi spingersi a interpretazioni molto più ardite come quelle dell’ideologia del “Mondo Russo” (Russkij Mir), che diversi teologi ortodossi ritengono eretica, una specie di “etno-imperialismo religioso” che non rientra nei canoni antichi della “sinfonia bizantina” tra il potere spirituale e quello secolare. Il futuro del patriarcato di Mosca, e dell’intero sistema dell’Ortodossia universale, andrà ripensato a fondo in tante dimensioni.

Quanto conta il Patriarcato negli attuali equilibri di potere al Cremlino?

La Chiesa ortodossa ha assunto nella Russia post-sovietica il ruolo che aveva nell’Urss il partito comunista e il suo Comitato centrale, che dettava la linea politico-ideologica a tutto il Paese. All’inizio del ventennio putiniano svolgeva una funzione assolutamente primaria di orientamento, fornendo con la sua “dottrina sociale” i capisaldi dell’orientamento al “sovranismo ortodosso”. Dall’annessione della Crimea nel 2014 l’ideologia del regime è diventata sempre più aggressiva e radicale, mettendo di fatto la Chiesa in secondo piano e senza permetterle di esprimere un pensiero autonomo. Il patriarca Kirill, ad esempio, non ha trasferito a Mosca la giurisdizione ecclesiastica della Crimea, che rimane sotto Kiev, ma spesso appare succube degli interessi della presidenza, che fa molte pressioni come nel caso della rottura canonica con il patriarcato di Costantinopoli, imposta dal Cremlino.

Leopoli è un’altra città ucraina importante, dove a fine Cinquecento venne compiuta la scelta degli “uniati”, gli ucraini cattolici di rito bizantino, di unirsi a Roma, scelta voluta dai re polacchi e dai missionari gesuiti. Quanti sono i cattolici nel Paese e qual è la loro composizione sociale?

In realtà, la scelta dell’Unione con Roma, firmata a Brest-Litovsk nel 1596, fu presa a Kiev, mentre Leopoli era allora la città dove gli ortodossi locali erano i più contrari alla scelta. In seguito, le proporzioni etniche e confessionali sono molto cambiate, soprattutto quando Leopoli divenne Lemberg sotto l’impero cattolico di Vienna. Oggi i greco-cattolici “uniati” sono circa 3 milioni, residenti soprattutto nella parte occidentale, dove ci sono anche un milione di cattolici latini di etnia polacca, ma sono sparsi un po’ in tutto il Paese e hanno la sede principale a Kiev, come gli altri ortodossi. Gli uniati, in effetti, si considerano ortodossi al pari degli altri e sarebbero favorevoli a fondersi con essi in un’unica Chiesa che fosse in comunione sia con Roma, che con Costantinopoli, e magari un domani anche con Mosca.

Putin, nel 2014, nel festeggiare l’annessione della Crimea, celebrava il ritorno alla Russia delle terre strappate ai “popoli infedeli” dell’Occidente. La Russia veniva chiamata a salvare il mondo dalla perdizione apportata dai corrosivi valori occidentali che oggigiorno chiamiamo della “cancel culture” e del “wokismo”. A suo dire, ciò spiega molto del fascino di Putin su una parte consistente del pensiero conservatore occidentale?

Indubbiamente l’impronta fortemente sovranista e identitaria della Russia putiniana ha ispirato e si è coniugata in vario modo con altre simili proposte in tanti Paesi del mondo. Basti pensare alla “sinicizzazione” della Cina di Xi Jinping, all’induismo fondamentalista dell’India di Narendra Modi, all’imperialismo neo-ottomano di Recep Tayyip Erdogan, e a tante varianti occidentali, di Trump, Bolsonaro, della Brexit e altre in tutti i Paesi europei, compresi quelli più anti-russi come la Polonia o l’Estonia. La deriva recente della cancel culture non fa che rafforzare l’aspetto etico-ideologico del putinismo, arrivando a evocare la missione apocalittica della “Terza Roma” medievale, che si proponeva di salvare il mondo dalle eresie e dalle perversioni come la sodomia, come recitano i testi monastici del Cinquecento. Di sicuro i “valori occidentali” sono rappresentati dai russi in forma grottesca e caricaturale, come del resto lo sono i “valori patriottici” sbandierati in una Russia che ama vivere esattamente come gli europei e gli americani, e ha ereditato dal periodo sovietico un relativismo assoluto a livello etico. È un uso politico della morale, della filosofia e della religione che ha ben poca attinenza con la realtà, ma tocca i nervi scoperti della coscienza degli occidentali.

(Achille Pierre Paliotta)

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI