Nel 2001 un’auto su tre prodotta nel mondo usciva da una fabbrica della vecchia Europa. Nel 1970 la percentuale era di un’auto su due. Oggi si arriva a malapena a un pezzo su cinque. E le cose non cambieranno nel 2013, anno del grande sorpasso: a fine anno la produzione cinese, tra auto, furgoni e altri veicoli leggeri raggiungerà i 19,6 milioni di pezzi, l’Europa tutta non andrà oltre i 18,3 milioni di veicoli. È La previsione, tutt’altro che inverosimile, del Financial Times, che fotografa in maniera impietosa la crisi delle quattro ruote in Europa.



Certo, le cattive notizie hanno pure risvolti positivi: dietro il tracollo delle quattro ruote, come sostengono in molti, c’è il travaglio che anticipa un nuovo modello di crescita, basato su un concetto nuovo di mobilità in città e fuori, sull’espansione dell’auto elettrica e/o dei modelli ibridi. Oltre a nuovi paradigmi sociali, in cui l’auto privata, già simbolo d’emancipazione, non ha più la stessa importanza o lo stesso appeal. Per ora, però, resta il fatto che, rispetto al 2007, la produzione europea denuncia un calo di oltre quattro milioni di pezzi, pari a due volte la Fiat negli anni migliori. Nel frattempo, negli ultimi dieci anni, la produzione cinese è cresciuta di dieci volte, anche grazie ai massicci sforzi di Bmw, Volkswagen, Gm e Toyota che da soli, dalle parti del Drago, valgono più di quel che si è perduto in Europa negli ultimi cinque anni.



Al di là di considerazioni sociologiche, insomma, l’auto misura il declino dell’industria europea più di altre statistiche. Ma non di tutta l’Europa. All’interno del Vecchio Continente ci sono forti differenze. La più nota ed evidente riguarda la leadership di Volkswagen, Bmw e dei produttori asiatici a fronte della crisi che ha colpito i leader delle vetture destinate alla classe media, il cui potere d’acquisto è in caduta libera. Di qui la caduta a due cifre di Fiat, al pari di Opel, Peugeot e Renault, messi sotto pressione in particolare da parte della concorrenza coreana. Ma, all’interno del mercato unico, esistono altre forme di concorrenza.



Nel corso degli ultimi anni il Regno Unito ha saputo attrarre investimenti dai produttori europei, Usa e asiatici. Lo stabilimento Nissan di Sunderland, ad esempio, è il più efficiente della casa nipponica controllata da Renault, che ha in pratica concentrato nel Regno Unito la ricerca sull’auto elettrica. Oltre Manica si concentrano gli investimenti di Tata (Jaguar, Land Rover), Gm (l’Astra verrà spostata dalla Germania all’Inghilterra), Bmw e così via. Sulla stessa lunghezza d’onda opera l’auto spagnola. A fine 2012 il mercato iberico ha assorbito 700 mila veicoli, ma dalle fabbriche made in Spain sono usciti 2,2 milioni di pezzi, al 90% diretti oltre frontiera per la gioia della bilancia commerciale. L’anno prossimo andrà ancora meglio:  andranno infatti a regime gli investimenti di Ford a Valencia, di Renault a Palmera, della cugina Nissan e, non ultimo, l’impianto di Iveco. Senza dimenticare la decisione di Volkswagen di raddoppiare la fabbrica di Martorell dove, accanto alle Seat, sorgeranno nuove linee per soddisfare la domanda di Audi 3. In tutto più di 4 miliardi in poco più di due anni che consentiranno all’auto spagnola di difendere l’occupazione (280 mila addetti, il 7% in meno rispetto al picco del 2007, ma nello stesso periodo l’industria locale ha perduto addetti per quattro volte tanto) oltre alla bilancia commerciale.

Il segreto? Come ha notato Federico Fubini su Il Corriere della Sera, “le vendite auto in Spagna quest’anno sono crollate del 13%, eppure la produzione per l’export è salita dell’11%, perché i lavoratori hanno accettato contratti alla tedesca con più flessibilità, più competitività e posti di lavoro”.

Già, quel che accomuna l’industria dell’auto britannica, quella tedesca e la Spagna è la capacità di offrire alle imprese la necessaria flessibilità produttiva. Certo, i modelli sono diversi: in Germania, la crescita della produttività si è accompagnata a una revisione puntuale e rigorosa del sistema di produzione; in Inghilterra le Unions hanno accettato flessibilità di salario e diversi modelli contrattuali pur di garantire maggior occupazione; in Spagna, ove non esiste un contratto nazionale di categoria, i due maggiori sindacati hanno accettato di contrattare, fabbrica per fabbrica, le richieste aziendali con la pregiudiziale del mantenimento del posto di lavoro a tempo indeterminato (l’85% delle tute blu ha un posto di lavoro senza scadenza).  L’unico denominatore comune, che accomuna i vari paesi citati, è la garanzia concreta offerta agli imprenditori, poco importa se nazionali (in Germania) o in arrivo da fuori (Regno Unito e Spagna non hanno leader locali), del rispetto della maggior flessibilità e della missione comune.

Ricette alternative, a giudicare dalle esperienze europee, non esistono. Prendiamo il caso della Francia. Parigi ha cercato più volte, ultimo caso il piano de Montenbourg, di sviluppare nuovi paradigmi di sviluppo e di ricerca. Già sotto Sarkozy Renault e Peugeot hanno avuto in prestito i quattrini per realizzare i nuovi modelli invocati, per Fiat, da Maurizio Landini e Susanna Camusso che accusano Sergio Marchionne di non aver investito a sufficienza. Intanto, in cambio dei sostegni al braccio finanziario di Psa, Parigi ha chiesto e ottenuto l’ingresso nel cda di rappresentanti del governo e del sindacato. Renault, da anni, assorbe quattrini per la ricerca e lo sviluppo dell’auto elettrica e degli ibridi. Il tutto, naturalmente, all’insegna degli imperativi della politica economica.

Il risultato? L’auto elettrica Renault rappresenta più o meno l’1% del mercato. La produzione francese 2012 è di 1,9 milioni di pezzi, circa la metà del 2003. Sia Psa che Renault confidano negli investimenti in Spagna per recuperare quote di produttività. Certo, anche in Spagna giocano un ruolo gli incentivi: 121 milioni in tutto, all’apparenza non molti, ma un vero e proprio tesoro per un Paese allo stremo che così dimostra di voler difendere a denti stretti la sua industria a quatto ruote.

In questa cornice così complessa si inserisce il caso Italia. La Fiat, si sa, ha deciso di giocare la carta italiana nonostante il Paese non sia certo tra i più competitivi, né rispetto all’Est Europa, né paragonato alla Spagna, che in questi anni ha sensibilmente recuperato in produttività. La scommessa, ribadita di fronte al premier Mario Monti in quel di Melfi, è di poter disporre nella Penisola delle stesse condizioni di cui godono i produttori in Spagna o Regno Unito.

Il rischio è che si vada, per compiacere la Cgil, a un regime più rigido di quello francese, condito di richieste per nuovi modelli (quelli che, lanciati prima del tempo, hanno affossato Peugeot…), più investimenti e nuove strategie. Anche questo  è in palio nella prossima sfida elettorale. Ci pensino gli elettori, ci pensi Giorgio Squinzi: la Confindustria, una volta uscito il “cattivo” Marchionne, non ha fatto grandi passi in avanti nel dialogo con la Cgil.

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