Sergio Marchionne prevede di “arrivare alla piena occupazione negli stabilimenti italiani anche prima dei tre-quattro anni previsti”. Lo ha annunciato nel corso di un’intervista pubblica con Ezio Mauro sul palco della Repubblica delle idee, sottolineando che la strategia è quella di puntare sul lusso, come era stato dichiarato lo scorso ottobre: “Producendo in Italia Maserati, Alfa e Jeep, riusciremo a garantire l’occupazione”. Ilsussidiario.net ha intervistato Stefano Cingolani, giornalista economico.



Come valuta le dichiarazioni di Marchionne alla Repubblica delle idee?

Per quanto riguarda gli stabilimenti mi sembra un impegno importante. Stanno chiudendo o rischiano di chiudere stabilimenti in tutta Europa: le più colpite sono Opel e Peugeot, ma c’è una situazione drammatica per l’intero mercato dell’auto europeo. Quello di Marchionne potrebbe essere quindi un impegno interessante, soprattutto perché annuncia l’idea di puntare anche negli stabilimenti italiani sulla produzione di auto di fascia alta, con l’uscita della nuova Maserati.



Sarà la scelta vincente?

Con la ristrutturazione del settore automobilistico in Europa bisogna puntare su modelli diversi. Il mercato europeo chiede da un lato city car sempre meno inquinanti, auto che permettano di risparmiare energia, ibridi come la vettura elettrica. Dall’altra a essere sempre più richieste sono le vetture di alta gamma, lasciando invece le auto di massa ai produttori dei paesi in via di sviluppo. Sulle affermazioni di Marchionne c’è però sempre un punto interrogativo.

Che cosa non la convince?

L’amministratore delegato di Fiat fa sempre numerosi annunci, ma poi l’ultima parola spetta al mercato che come sappiamo è molto complicato. Per esempio, Marchionne di recente è stato costretto a fare autocritica dichiarando che Fabbrica Italia è stato il suo errore principale. Vedremo ora se questi impegni, che di per sé sembrano interessanti, saranno rispettati.



Quali saranno le richieste di Marchionne al governo in cambio delle sue promesse?

Questa è la grande questione, perché il governo italiano non può più fornire aiuti di Stato. Ciò che può garantire, come è avvenuto anche nel caso di Melfi, è una cassa integrazione lunga, che in parte pesa sui contributi pagati dai datori di lavoro e dai lavoratori e in parte sui contribuenti. E’ un aiuto importante, perché la riconversione dell’industria è accompagnata da un sostegno sociale. La Fiat può in qualche modo chiedere al governo anche un sostegno produttivo, in particolare per l’innovazione e in termini di incentivi all’auto elettrica. Bisognerà vedere fino a che punto si può fare questo e oltre quale limite si cade negli aiuti di Stato.

Ritiene che fare un passo per la crescita in questo settore spetti soprattutto al governo o all’Ue?

La richiesta sempre più forte che sembra emergere è un piano europeo per la riconversione dell’industria automobilistica. E’ questo il punto più importante, sul quale bisognerà aprire una discussione. A Bruxelles è in corso una serie di audizioni, incontri e dibattiti con i top manager delle grandi case automobilistiche. L’idea che emerge è che oggi, attraverso la crisi strutturale, la situazione in cui si trova il mercato automobilistico sia simile a quella dell’industria siderurgica negli anni ’80. All’epoca i governi intervennero molto più direttamente, mentre oggi i singoli Stati non lo possono più fare e quindi occorre un progetto su scala europea che accompagni questa riconversione, o che la favorisca senza uno spirito o una filosofia pianificatori.

 

Quali sono le differenze tra la crisi della siderurgia degli anni ’80 e quella attuale del mercato automobilistico?

 

Il piano dell’acciaio degli anni ’80 era ancora improntato a una cultura di piani di settore e politiche industriali programmatorie. Oggi prevale un altro tipo di impostazione teorica. Non c’è dubbio però che gli Stati Uniti oggi hanno fatto molte cose per favorire la riconversione dell’industria dell’auto, e che allo stesso modo anche l’Ue dovrebbe avere un suo piano perché l’auto è molto importante nella struttura industriale dell’Europa. Va aiutato il patto sociale di questa riconversione, focalizzandosi sulle ricadute sui lavoratori e sull’ambiente circostante. Quando chiude uno stabilimento importante a essere compromesso è infatti anche l’intero indotto.

 

(Pietro Vernizzi)