Una volta conclusa la fusione con Chrysler, Sergio Marchionne potrebbe decidere di spostare il quartier generale della Fiat negli Stati Uniti. La notizia, trapelata dall’agenzia americana Bloomberg, al momento non trova riscontro. Dal Lingotto non è giunto alcun commento, anche se ambienti vicini alla Fiat hanno recentemente definito poco probabile uno scenario del genere. Al contrario, Maurizio Landini non si dice affatto stupito: “Non mi pare sia una novità. Da tempo il dottor Marchionne sta dicendo che il quartier generale andrà via del nostro Paese”, spiega il leader della Fiom, aggiungendo che “l’Italia è l’unico Paese dove si producono auto in cui il governo, Berlusconi prima Monti poi, è stato a guardare. In tutto il mondo il settore ha bisogno di finanziamenti pubblici, mentre qui si pensa che sia un conflitto tra la Fiom e la Fiat che non esiste e il rischio è che tra un po’ raccoglieremo le macerie e gli investimenti saranno fatti da altre parti”. Abbiamo commentato questa ipotesi di trasferimento con Riccardo Gallo, professore ordinario di Economia applicata presso l’Università La Sapienza di Roma.
Crede sia realistico immaginare uno scenario simile?
In teoria è possibile, per diversi motivi. E’ però necessario affrontare l’argomento facendo un passo indietro: a mio parere, infatti, è in corso da qualche anno un graduale processo di privatizzazione della Fiat.
Privatizzazione?
Ovviamente il controllo del gruppo è sempre stato in mano alla famiglia Agnelli, ma io parlo di privatizzazione per definire un comportamento privatistico tipico delle imprese a controllo azionario privato.
In passato non era così?
No, in passato il comportamento della Fiat era parzialmente pubblicistico. Più precisamente, prima la Fiat poteva avere dallo Stato italiano forme di indennizzo per oneri impropri, vale a dire per tutta una serie di extra costi connessi al conseguimento di finalità pubblicistiche, per esempio produzioni, fabbriche e localizzazioni aventi una economicità non piena ma destinata allo sviluppo del Mezzogiorno o a vincoli occupazionali.
Cos’è avvenuto successivamente?
Da quando non ci sono più agevolazioni finanziarie, incentivi e detassazioni, la Fiat ha ovviamente cominciato a ragionare come una qualsiasi multinazionale. Bisogna aggiungere che, in passato, anche le imprese di Stato erano solite assumere comportamenti leggermente privatistici nel momento in cui si internazionalizzavano.
Si spieghi meglio.
Un’impresa si internazionalizza per competere sui mercati mondiali, ma per farlo deve avere un atteggiamento simile a quello privatistico. Con la conseguenza, quindi, che la finalità pubblica impallidisce. Internazionalizzazione non significa limitarsi a esportare o ad avere una produzione all’estero, attività che facevano anche le imprese di Stato, ma significa ragionare “foreign-minded”, cioè con una mentalità estera non concentrata sul contesto locale. Inoltre, si adottano politiche di “transfer pricing” (prezzi di trasferimento, ndr) con l’obiettivo di far emergere gli utili nei Paesi dove il sistema tributario è meno oppressivo.
Questo è avvenuto anche alla Fiat?
E’ avvenuto con Sergio Marchionne. E’ in questo senso che la Fiat si sta privatizzando ed è in questo senso che non è così assurdo immaginare uno spostamento del quartier generale negli Stati Uniti.
Cosa perderebbe l’Italia in caso di uno spostamento della Fiat?
Prima di tutto l’Italia dovrebbe meritarsi di mantenere entro i propri confini aziende come la Fiat, eppure al momento sembra prevalere una mera logica del “pretendere” che non prevede il minimo sforzo per tentare di recuperare competitività. Detto questo, credo che dal punto di vista pratico un eventuale trasferimento non comporterebbe conseguenze così pesanti.
Come mai?
Innanzitutto perché dobbiamo fare chiarezza sulla definizione di “quartier generale”. Attualmente la gestione Chrysler si svolge negli Usa e quella Fiat in Italia, dove per altro sono attivi diversi stabilimenti. Allora cosa si intende quando si parla di “spostamento”? Dell’ufficio di Marchionne o di cosa? Piuttosto le domande che dobbiamo porci sono altre: la quota azionaria del capitale sociale della holding che oggi è in mano agli Agnelli è destinata a diluirsi? Se sarà necessario un aumento di capitale, gli Agnelli metteranno mano al portafoglio o serviranno altri azionisti? E chi saranno? Purtroppo sono tutte domande che al momento non hanno risposta.
(Claudio Perlini)