Marchionne sta conducendo l’ennesima operazione volta a rendere la Fiat ancora un po’ meno italiana. L’ad italo canadese consoliderà la presenza del gruppo in Brasile attraverso un investimento di 7 miliardi di dollari da qui al 2016. La cifra servirà per produrre automobili ma anche veicoli industriali e motori. Il Paese beneficerà, in questo mondo, di un incremento di 7.700 occupati, tanti saranno i nuovi dipendenti degli stabilimenti brasiliani. Attraverso l’indotto, invece, sarà dato lavoro ad altre 12mila persone. Il programma è stato presentato al presidente Dilma Rousseff, e accresce quello precedente da 4 miliardi di dollari per il periodo 2011-2014. Nel frattempo, tra i sindacati e i lavoratori del Lingotto serpeggia il malumore e il timore che il marchio, in Italia, sarà destinato a subire sempre maggiori ridimensionamenti. Gianni Gambarotta, giornalista economico esperto del settore automotive ci spiega perché, effettivamente, le preoccupazioni sono piuttosto giustificate.



Come giudica la mossa di Marchionne?

L’amministratore delegato della Fiat non ha fatto altro che mettere in pratica quello che continua ad affermare da tempo. In Italia, Fiat è in perdita, così come in Europa. Guadagna, invece, negli Usa (con Chrysler) e in Polonia, mentre in Brasile è addirittura leader del mercato. E’ inevitabile, quindi, che decida di investire dove maggiormente gli conviene. Una Fiat sempre più straniera è una circostanza coerente con gli andamenti del mercato. Se puntare sull’Italia risulta penalizzante, non resta alternativa a cercare altri sbocchi. Qualunque imprenditore non avrebbe potuto agire altrimenti.



Perché il mercato italiano versa in questa situazione?

Le vendite, in Italia a ogni rilevazione mensile sulle immatricolazioni delle auto, registrano il segno “meno” seguito, spesso, da due cifre. Il problema è che tra i grandi paesi d’Europa, il nostro è quello che maggiormente è stato colpito dalla crisi. Fiat ne sta pagando, quindi, le conseguenze. Come se non bastasse, alla crisi si aggiunge una peculiarità spiccatamente italiana, ovvero l’elevatissimo cuneo fiscale che ci sta rendendo sempre meno competitivi.

Fiat potrebbe diventare interamente straniera?

Non credo che ci sarà mai uno smantellamento totale. Tuttavia, la parte più consistente dell’azienda sarà spostata all’estero. D’altro canto, già adesso, la somma delle realtà Fiat presenti in Brasile, Usa, Polonia e Serbia supera di gran lunga la presenza italiana.



 

Il trend si può invertire?

Possiamo sperare in una regolamentazione condivisa a livello europeo favorevole alle esportazioni, o nell’uscita dalla crisi. Tuttavia, per il momento, i segnali in questa direzione sono decisamente deboli. Dubito, in sostanza, che nel breve-medio termine la situazione cambi. Temo, invece, che siamo di fronte a una delle tante partite che abbiamo perso. Rientra in una deriva inarrestabile. Basti pensare che stiamo vendendo Telecom ai cinesi.

 

Sarebbe sostenibile, a livello occupazione, un modello in cui la produzione e la vendita di automobili fossero spostate all’estero, mantenendo in Italia la progettazione e l’innovazione tecnologia?

La progettazione dei modelli, salvo quelli targati Chrysler, già adesso viene effettuata prevalentemente a Torino. Se ci si limitasse a questo, i livelli occupazionali scenderebbe in maniera drammatica. Quel che dà lavoro nelle industrie automobilistiche, infatti, è l’intera catena produttiva. 

 

Il Brasile, grazie a Marchionne, diventerà economicamente ancora più importante. Questo potrebbe danneggiarci?

Non direi. Si tratta di due paesi indipendenti e di due economie che non sono collegate tra di loro. 

 

(Paolo Nessi)