I dati che arrivano dall’Oica, l’Organizzazione internazionale dei costruttori di automobili, sulla produzione mondiale hanno lo stesso sapore agrodolce di quasi tutti i risultati economici che arrivano in questi giorni: buone notizie dall’estero, pessime dall’Italia. Il numero di automobili costruite nel mondo lo scorso anno è cresciuto del 3,7%, arrivando a oltrepassare quota 87 milioni, tra auto (65.433.287) e veicoli commerciali (21.866.828). È un record assoluto per un settore che dimostra un’indubbia vitalità. L’Italia in questo scenario non solo perde il 2% della produzione a quota 658.207 unità (388 mila auto e 270 mila veicoli commerciali), ma scivola nella seconda metà della classifica attestandosi al 21° posto.
Al primo posto c’è la Cina, al secondo gli Usa e al terzo il Giappone, al quarto la Germania e al quinto la Corea del sud. E queste posizioni erano facilmente immaginabili. Anche la presenza davanti all’Italia di India, Brasile, Messico, Thailandia, Canada e Russia è comprensibile. È un po’ più difficile accettare che Francia, Spagna e Inghilterra abbiano un’industria automobilistica che ha sfornato tra il milione e mezzo e i due milioni di auto, specie se si considera che le ultime due nazioni non hanno neanche più un costruttore nazionale. Quasi impossibile, invece, comprendere come abbiano fatto a starci davanti Argentina e Iran, che non solo non hanno industrie produttrici locali, ma hanno anche una situazione politica ed economica di gran lunga più complicata della nostra.
Per spiegare i numeri dell’Oica bisogna capire cosa spinge un’industria a localizzare i propri impianti in un Paese piuttosto che in un altro. Le motivazioni sono sostanzialmente tre. La prima è abbastanza ovvia, quanto vera: i costruttori preferiscono realizzare auto dove le vendono, anche per la questione delle tasse d’importazione che in alcuni paesi sono particolarmente pesanti. In questo modo è spiegato il boom della Cina e di molte altre nazioni, ma non basta a spiegare la debacle italiana, visto che Francia, Spagna e Inghilterra non hanno un mercato molto più grande del nostro e producono più del doppio o del triplo.
La seconda motivazione è l’ambiente. Non basta una fabbrica di auto per costruirle. Intorno ci devono essere fornitori di pezzi, di servizi, di tecnologia, risorse umane specializzate, una cultura. Quando non c’è, la si crea realizzando sia l’insediamento industriale automobilistico che quello dei vari fornitori, aprendo scuole o importando lavoratori e tecnici. Su questo punto l’Italia non solo non ha nulla da imparare, ma ha anche pochissimi rivali al mondo. Nessuno può vantare un tessuto industriale di piccole e medie aziende specializzate paragonabile al nostro. Tanto è vero che molti di questi fornitori lavorano in giro per il pianeta con tutti i costruttori. E non c’è un altro Paese che può dichiarare di avere tecnici e ingegneri più bravi.
La terza motivazione è trovare una politica economica adatta. Nessuno ha mai avviato una produzione di auto in un sito che non abbia avuto un supporto pubblico non solo e non soltanto di natura puramente venale. La politica economica deve comprendere quell’insieme di misure che aiutano l’imprenditore a realizzare il proprio business. E conta molto di più l’assenza di problemi burocratici che la flessibilità esasperata del lavoro, l’efficienza delle infrastrutture di logistica piuttosto che i bassi stipendi, una politica fiscale intelligente più che le risorse a fondo perduto. In questo campo vantiamo primati mondiali negativi e non possiamo negarlo. Che bastano a spiegare la nostra lenta e inesorabile discesa nella classifica dell’Oica.
Se qualcuno vuole dare la colpa solo a Fiat dovrebbe per lo meno spiegare come mai nessun altro costruttore di automobili straniero ha mai voluto mettere piede in Italia. La giapponese Toyota ha scelto la Francia, nonostante ci fossero due costruttori nazionali e regole sul lavoro rigide almeno quanto quelle italiane. La sede europea e il centro ricerca della coreana Hyundai, come quelli di Ford, stanno in Germania, dove gli stipendi sono notoriamente superiori ai nostri. Nissan, invece, produce con straordinari risultati in Inghilterra, dove non si può dire che il costo del lavoro sia a buon mercato, la cinese Great Wall ha aperto di recente uno stabilimento in Bulgaria. Chissà perché, invece, in Italia non c’è voluto venire nessuno.