Ma quanto vale Fca? O meglio quanto varrà la casa automobilistica che raggruppa Fiat e Chrysler e si porta dietro una decina di altri marchi, dopo che a gennaio dal suo perimetro uscirà il gioiello rosso di famiglia, la Ferrari? Poco, ben poco, molto meno dei competitor mondiali. Basta fare due conti: oggi Fca vale circa 17,5 miliardi di euro, ma ha ancora in pancia l’80% di azioni Race, la sigla scelta dall’ad Sergio Marchionne per identificare le azioni Ferrari alla Borsa di New York, che valgono, a spanne, circa 7,5 miliardi. Per differenza, tutto il resto (Fiat, Lancia, Alfa Romeo, Magneti Marelli, Maserati, Jeep, Chrysler e gli altri marchi americani con relativa quota di mercato negli Usa) vale 10 miliardi tondi. Tanta roba a un prezzo di saldo.
Che sia poco è facilmente dimostrabile confrontando questi 10 miliardi con la capitalizzazione di Borsa dei competitor: Daimler vale 79 miliardi, Bmw 58, General Motors 55, Renault 23, Volvo 20 e Volkswagen, nonostante abbia visto crollare le proprie quotazioni nelle ultime 4 settimane, vale in Borsa 48 miliardi di euro. Persino Peugeot-Citroen che stava portando i libri in tribunale poco meno di un anno fa ha una capitalizzazione di 12,27 miliardi, quasi il 25% in più di Fiat-Chrysler.
Si può dire tutto di Fiat, non essere d’accordo con questa o quella strategia, contestare piani industriali fantasiosi o previsioni più o meno poco attendibili, ma non si può certo dire che Fca sia ancora, come dieci anni fa, sull’orlo del baratro. Anzi, dal giorno d’arrivo di Sergio Marchionne (il primo giugno 2004) il valore dell’azione Fiat, aggiustato per ogni operazione straordinaria e mondato dei dividendi, si è moltiplicato 5 volte e mezzo. Più di quanto sia successo nello stesso periodo a prestigiosi competitor come Bmw, che ha moltiplicato di 3,2 volte il prezzo, o Daimler Mercedes che lo ha moltiplicato di 2,5 volte o Renault che lo ha poco meno che raddoppiato. Peugeot- Citroen ha addirittura perso un terzo del valore rispetto al 2004, rimanendo, tuttavia, “più grande” di Fiat-Chrysler.
«Noi di Fca torniamo ad essere gli sfigati dell’auto» ha detto Marchionne subito dopo la quotazione di Ferrari a New York ed è proprio questo, forse, il punto centrale della corte spietata fatta in questo ultimo periodo a General Motors. In uno scambio azionario che non potrà mai essere vantaggioso dal punto di vista del peso post fusione, è meglio andare a nozze con un’azienda dove non c’è un azionista di riferimento pesante. Dentro General Motors la famiglia Agnelli troverebbe come principale azionista con il 9% il fondo Veba, quello del sindacato con cui ha trattato la cessione delle quote Chrysler, e potrebbe ottenere un posto di rilievo nel consiglio di amministrazione.
L’unico altro grande colosso dell’auto con una proprietà diffusa è Daimler-Mercedes che, però, ha un valore di capitalizzazione troppo alto per assicurare alla famiglia Agnelli una quota post fusione significativa. E peggio andrebbe dove ci sono azionisti di riferimento forti come Volkswagen, Bmw o Renault dove gli Agnelli rischierebbero di non entrare neanche nel consiglio di amministrazione.
Fca e Marchionne puntano su General Motors per non sparire. Perché, tolta Gm, Fiat-Chrysler non sarebbe altro che una preda, magari non facilissima da acchiappare perché il controllo è saldamente in mano alla famiglia Agnelli grazie alla normativa olandese, ma sicuramente non impossibile. Una preda e basta.