A volte le ricerche sottolineano ciò che ad alcuni può sembrare ovvio, benché sfugga alla maggior parte delle persone. È il caso di quella ricerca sul settore auto – condotta da Unioncamere e Prometeia e promossa dalla commissione Industria, Commercio, Turismo del Senato con il presidente di quest’ultima, Massimo Mucchetti, firmatario della prefazione – che spiega come non sia positivo il fatto che in Italia ci sia un solo grande costruttore di auto come Fiat-Chrysler e che l’assenza di altri big del settore sia un male. Insomma, due o tre aziende impegnate ad alto livello nel settore automotive sarebbero meglio di una.
Banale, direte voi, se la ricerca non indicasse anche una strada per aumentare l’appeal del nostro Paese: una seria politica industriale. Che tradotto in soldoni significa incentivi. Non quelli all’acquisto delle automobili che aiutano un po’ tutti e fanno anche la fortuna delle auto costruite all’estero, ma quelli che facilitano l’insediamento delle unità produttive, ovvero tutte quelle misure fiscali, finanziarie, organizzative, infrastrutturali, amministrative magari in deroga a leggi e regolamenti che favoriscono le industrie e fanno scegliere un luogo del mondo al posto di altri per insediare una fabbrica. E quando si parla di queste cose viene in mente immediatamente il “sentire comune” sugli aiuti alla Fiat “sovvenzionata per anni dagli italiani”. Un discorso magari non del tutto sbagliato, ma estremamente pericoloso.
Che ci siano stati in passato e ci siano anche ora forme di sostegno alla Fiat non si può certo negare. Come non si può negare che a volte erano fatti, come dire, “ad personam”, cioè destinati solo a quella che una volta era la casa automobilistica torinese. Ma se nel passato in qualche occasione si sono fatti degli errori non ci si può nascondere dietro di essi negando l’evidenza: senza una politica industriale per attrarre gli investimenti e una serie di incentivi nessuno si sognerà mai di venire a produrre auto in Italia.
L’esempio più recente è l’accordo con Lamborghini: il Governo ha messo sul piatto 70 milioni di euro per battere la concorrenza della Slovacchia, portare a Sant’Agata Bolognese la produzione del nuovo Suv e permettere la creazione di 500 posti di lavoro. Non è uno scandalo. Succede in tutto il mondo.
Qualche esempio? La maggior parte delle nuove fabbriche di auto negli Stati Uniti non vengono insediate a Detroit, dove storicamente ha sede l’industria automotive, ma nel Tennessee, famoso soprattutto per la musica country, proprio perché questo Stato concede incentivi maggiori e condizioni contrattuali di lavoro migliori. Quando Fiat ha deciso di costruire un nuovo impianto in Brasile si sono messe in concorrenza, a colpi di denaro e spazi pubblici, il Pernambuco e il Minas Gerais, due Stati in cui c’erano già stabilimenti del Lingotto, e il primo ha vinto un investimento di 2,2 miliardi di euro. Ancora uno? Tutti i più recenti stabilimenti di auto in Germania sono realizzati in quella che era una volta la Ddr. Bmw, Mercedes e Volkswagen non si sono lasciati scappare l’occasione di attingere ai fondi per la riunificazione e hanno scelto le zone in base ad accordi con il potere locale nella più assoluta trasparenza.
L’industria dell’auto porta posti di lavoro, fa nascere un indotto e crea ricchezza. Per questo in tutto il mondo sono disposti a concedere molto pur di averla sul proprio territorio. L’Italia, finora, ha fatto poco o nulla e si vede.