Quando meno di dieci giorni fa Martin Winterkorn al Salone Francoforte ha detto “Entro il 2020 stravolgerò Volkswagen” non immaginava certo che sarebbe bastati pochi giorni per trasformare la sua previsione in realtà. Il gruppo automobilistico più grande del mondo è a pezzi, oltre mezzo milione di dipendenti sono preoccupati, decine di anni di investimenti miliardari per costruirsi una reputazione internazionale integerrima sono stati buttati nel giro di tre giorni.
Il titolo in Borsa ha perso una montagna di quattrini e Winterkorn ha dato le dimissioni. In un amen è crollato un uomo potentissimo che aveva appena raggiunto l’apice della sua carriera. Sotto la sua direzione, il gruppo tedesco era passato da otto a dodici marchi, gli stabilimenti produttivi erano più che raddoppiati, i profitti quasi triplicati e le vendite cresciute del 64% fino a 202 miliardi di euro di fatturato e 10,1 milioni di unità. “Guadagno ogni centesimo che mi danno”, sottolineava Winterkorn a chi gli ricordava i 16 milioni di euro annui che incassava dal gruppo tedesco. Era il manager europeo più pagato in assoluto e il suo sorriso al Salone dell’auto di Francoforte la diceva lunga su un uomo che aveva tutto: denaro, potere, prestigio.
Aveva rischiato di cadere cinque mesi fa quando quello che era il deus ex machina di Volkswagen, Ferdinand Piech, il nipote di Porsche e icona del gruppo e dell’intero settore automotive, allora presidente del Consiglio di sorveglianza e grande azionista del gruppo, aveva dichiarato di non essere soddisfatto dei risultati ottenuti e aveva chiesto senza mezzi termini la sua testa. Winterkorn aveva resistito, combattuto, mosso tutte le pedine giuste e alla fine aveva vinto: lui restava con maggiori poteri e Piech usciva dal gruppo.
Il figlio aveva divorato il padre. La carriera di Winterkorn, infatti, era iniziata nel 1981 quando fu chiamato da Audi a fare da assistente proprio all’allora giovane Piech. Insieme avevano “inventato” i motori turbodiesel e la trazione Quattro. Insieme avevano prima scalato le posizioni di potere dentro Audi e poi nel Gruppo Volkswagen.
Una coppia di samurai invincibili che avevano mandato la casa automobilistica tedesca tra le stelle aprendo e sfruttando a pieno il boom del mercato cinese, comprato marchi automotive in giro per il mondo, puntato senza alcun timore a diventare i numeri uno del mondo. Sempre d’accordo, almeno all’apparenza. Fino a pochi mesi fa. C’è chi dice che il motivo fossero i risultati economici o i poco brillanti risultati negli Usa.
A parere chi scrive la frattura è arrivata quando Ferdinand Piech ha cominciato ad accarezzare l’idea di un merger con Fca perché aveva capito che i limiti del colosso tedesco erano la scarsa capacità di costruire e vendere auto piccole e l’impossibilità di avere risultati negli Usa paragonabili a quelli di Asia ed Europa. Il gruppo guidato da Marchionne era il partner perfetto per Piech, ma non per Winterkorn che, forse preoccupato da un’operazione colossale e dal peso di un personaggio come Marchionne dentro l’azienda, ha fatto appello alla politica e ai sindacati, presenti nel Consiglio di sorveglianza del gruppo per bloccare il merger sul nascere. Non è un mistero che anche il cancelliere tedesco Angela Merkel tifasse per Winterkorn contro l’azionista austriaco Piech, forse spaventata dalle conseguenze occupazioni in Germania di un progetto così grandioso.
Dal 25 aprile 2015, giorno in cui Piech ha lasciato dopo 13 anni la presidenza del Consiglio di sorveglianza del gruppo, le azioni Volkswagen sono passate da 230 euro a circa 115 euro, ma prima dello scoppio della crisi attuale viaggiavano attorno ai 160 euro. La famiglia Porsche, alla quale appartiene anche Piech, ma che ha votato a favore di Winterkorn, ha il 31,5% delle azioni ordinarie, dunque ha portato a casa una minusvalenza di decine di miliardi di euro e rischia di non vedere un dividendo per almeno un paio d’anni. Il Land tedesco della Bassa Sassonia, che ha il 12,4% delle azioni ordinarie e il 20% dei diritti di voto, ha perso almeno il doppio dell’equivalente di una manovra finanziaria italiana e non potrà più usare le ricche cedole Volkswagen per i propri servizi pubblici. Mentre gli arabi della Qatar Holding, che sono i terzi azionisti per importanza, devono forse ancora capire cosa è successo ai loro soldi e perché. Botte che abbatterebbero un toro e giustificano tutto. Persino, dopo essersi leccati le profonde ferite, un’inversione di rotta.
Il ritorno di Piech? Difficile soprattutto per una questione di età, dato che ha 78 anni. Ma sapete quale uomo aveva scelto “il vecchio” per sostituire Winterkorn cinque mesi fa? Proprio quel Matthias Müller, numero uno del marchio Porsche, uno dei 14 del gruppo, che un atterrito Consiglio di sorveglianza fatto da sindacalisti, politici e parenti serpenti di Piech, ha deciso venerdì di issare al comando del colosso acciaccato. Sarà una coincidenza? Non credo.