Una denuncia di un relativamente piccolo concessionario di Chicago, un controllo della polizia francese che si è concluso senza rilevare niente di illegale, un incontro non felice con l’agenzia americana dell’ambiente. Il giovedì nero che hanno vissuto ieri le case automobilistiche mondiali ha motivazioni molto diverse da azienda ad azienda, ma dimostra inequivocabilmente che i nervi degli investitori sono scoperti, che l’intero settore automotive è nel mirino delle autorità di tutto il mondo e che, come un pugile suonato, quelle che sono ancora colossi industriali a livello planetario non riescono a rimettersi in piedi, a smettere di commettere banali errori di comunicazione, a farsi riconoscere il rispetto che meritano, fosse solo per il fatto che danno lavoro e da vivere a milioni di persone ovunque.
Il caso più interessante è quello di Fca. Nel giorno in cui escono i dati Usa che attribuiscono nel 2015 oltre 2,2 milioni di auto immatricolate dal Gruppo (+7%, due punti percentuali in più rispetto al mercato complessivo) il titolo precipita del 10% perché uno dei suoi 2600 concessionari statunitensi vuole portarla in tribunale con l’accusa di gonfiare i dati di vendita. Nella denuncia il dealer afferma di aver rifiutato l’offerta di 20 mila dollari per dichiarare che aver venduto in un mese 40 auto in più rispetto a quelle effettivamente vendute, parla di “racket”, e definisce i suoi colleghi dealer “cospiratori”.
Che il settore dei concessionari non sia un mondo per “signorine” lo sa chiunque ci abbia avuto a che fare. Che le case automobilistiche facciano degli sconti maggiori a chi vende di più è risaputo. Ma definire tutto questo un racket frequentato da cospiratori pare subito un po’ esagerato. Ma perché Fca dovrebbe pagare per far figurare più auto vendute? Il denunciante non lo spiega e si limita a scrivere che in questo modo fa bella figura e ottiene più soldi dalle banche. Subito dopo, però, chiama in causa Fca anche per aver permesso che nella sua zona di competenza, dopo che aveva fatto investimenti milionari, aprisse un concorrente (naturalmente “cospiratore”).
Insomma, fino a quando qualcuno non spiegherà che interesse avrebbe Fca a pagare 500 dollari al mese per far risultare venduta un auto che non lo è, la questione ci convince poco e potrebbe, alla fine, essere derubricata nella vasta categoria dei “concessionari arrabbiati” con la casa costruttrice. Ma in Borsa è bastato per far crollare il titolo, forse anche perché Fca ha fatto passare quasi tutta la giornata prima di fare un commento ufficiale.
Renault, invece, ha perso più del 10% perché la magistratura francese ha controllato le emissioni dei suoi modelli. Il risultato? Nessun aggeggio che limitasse fraudolentemente i gas di scarico, ma una differenza tra quanto certificato alla fabbrica e quanto rilevato. Insomma, la scoperta dell’acqua calda perché tutti sanno che le rilevazioni ufficiali delle emissioni vengono fatte in condizioni ottimali che mai e poi mai si possono ripetere nella realtà quotidiana. Ma “l’acqua calda” è costata un paio di miliardi di euro agli azionisti, tra cui spicca lo Stato francese.
Più limitate le perdite di Volkswagen (solo 2,6%) che, però otto mesi fa valeva il doppio di quanto vale oggi. In questo caso il mercato ha ulteriormente punito una dirigenza che non solo un paio di giorni fa si era vista bocciare il piano per risolvere tecnicamente il problema delle auto “truccate” in circolazione negli Stati Uniti, ma ieri ha mandato il numero uno del Gruppo, Matthias Muller, a sbattere contro la porta dell’Epa, l’agenzia di protezione dell’ambiente americana. Un’ora di colloquio al vertice, nessun risultato e neanche tanta cordialità da parte americana.
Il ceo di Volkswagen, qualche anno fa, si sarebbe esposto solo se fosse stato certo di una conclusione positiva del colloquio, altrimenti avrebbe mandato qualcun altro. I tempi cambiano e forse anche gli amministratori delegati. Specie in Germania.