“Signora torinese con forti interessi negli Stati Uniti e in Brasile cerca partner, finanziariamente solido, scopo matrimonio”. Manca solo un trafiletto di questo genere pubblicato tra gli annunci economici dei giornali internazionali e poi il ceo di Fca Sergio Marchionne avrà fatto di tutto per far saper al mondo che la sua azienda ha tanta voglia di essere acquistata. Ha strizzato gli occhi ai concorrenti, ha tentato avance con i colossi Google e Apple che stanno cercando di mettere in pista un’auto a guida autonoma, ha protestato per il disinteresse con cui le sue avances sono state accolte.
Intendiamoci, è tutta una questione di prezzo. Se il prezzo fosse di saldo, magari qualcuno potrebbe farci un pensierino, ma Marchionne non ha mai svenduto niente in vita sua, anzi. Vi ricordate come abbia fatto sborsare oltre un miliardo e mezzo di euro a General Motors per non comprarsi la vecchia Fiat, come abbia pagato un tozzo di pane per Chrysler o come più recentemente abbia messo sul mercato Ferrari a 52 dollari per azione, dieci in più della quotazione attuale? Insomma, se qualcuno vuole acquistare Fca deve trattare con il ceo italo-svizzero-canadese e tutti sanno che è capace di tutto meno che di accettare di vendere per un prezzo stracciato.
Ma questo qualcuno che vuole davvero comprare Fca esiste? L’unico che aveva un interesse industriale nell’ex Lingotto era il Gruppo Volkswagen, che avrebbe in un colpo solo superato gli unici due limiti che gli erano rimasti – le scarse vendite negli Usa e una maledetta incapacità nel realizzare con successo city car degne di questo nome – e si sarebbe issata, in maniera stabile, al primo posto nella classifica dei costruttori mondiali. Ma tutto questo sarebbe potuto succedere prima del settembre dello scorso anno. Oggi, il Gruppo di Wolfsburg ha ben altri problemi da affrontare. Non è certo il momento per un grande deal e nei prossimi anni dovrà spendere molto di più di quanto avrebbe mai pagato Fca per mettere una pezza allo scandalo dieselgate.
E gli altri? Si è parlato a lungo di General Motors. O meglio: Marchionne ne ha parlato a lungo con chiunque tranne che con il ceo di Gm Maria Barra, che non ha voluto neanche rispondergli al telefono. Questa operazione piacerebbe agli eredi Agnelli perché in un merge con scambio azionario finirebbero per diventare uno degli azionisti di riferimento del più grande costruttore americano, ma il deal non ha molto senso dal punto di vista industriale per Gm perché Fca gli porterebbe una dipendenza importante dall’andamento del mercato americano, non migliorerebbe la situazione in Europa e nel resto del mondo. Opel e Fiat fanno auto simili in Europa, Gm e Chrysler hanno la stessa gamma nella zona Nafta e persino in Brasile le due aziende si contendono la leadership di mercato vendendo automobili che si assomigliano. Unire le forze, in questo caso, potrebbe provocare più danni che vantaggi. Certo, potrebbero esserci dei notevoli risparmi sugli investimenti necessari per la realizzazione e l’industrializzazione dei nuovi modelli, ma crescerebbe il rischio di snaturare i prodotti e fare dei danni all’immagine della marca.
Altri partner potrebbero essere Suzuki, che però ha dimostrato nel recente passato di digerire male gli accorpamenti mandando a scatafascio l’accordo di scambio azionario e partnership con il Gruppo Volkswagen, oppure Madza, che ha venduto nel 2015 “solo” 1,5 milioni di auto ed è davvero troppo piccola.
Qualcuno dice che la sposa potrebbe essere la francese Psa (che controlla i marchi Peugeot e Citroen), un’ipotesi più volte rilanciata dai quotidiani – che hanno parlato anche di incontri tra le parti – e sempre puntualmente smentita dai soggetti interessati. Il nuovo gruppo arriverebbe a costruire 8 milioni di auto l’anno e Psa potrebbe essere interessata a rimettere piede in maniera significativa nei mercati americani. Oltre a questi due fatti positivi, in un eventuale deal si vedono più problemi che soluzioni. Psa era sull’orlo della bancarotta solo due anni fa ed è stata salvata dall’intervento dello Stato francese e di un nuovo partner cinese che ora hanno entrambi il 14% del capitale azionario.
Ora la situazione è decisamente migliorata, ma la convalescenza non è finita. Anzi in Peugeot-Citroen hanno lo stesso problema che aveva Fiat fino a qualche tempo fa: l’eccessiva dipendenza dall’andamento del mercato europeo. Finché le vendite nel Vecchio Continente tirano, tutto va bene, ma quando rallenteranno inizieranno i problemi. Grazie al socio straniero i francesi puntano molto sull’enorme mercato cinese, ma non è detto che l’operazione riesca. Inoltre, potrebbe esserci un altro problema: sono in pochi quelli che sostengono che gli eredi Agnelli sarebbero felici di essere i nuovi soci della Francia in un’azienda. E i padroni, nonostante Marchionne, rimangono loro.