Per Sergio Marchionne l’uscita dell’Inghilterra dall’Ue avrebbe «un impatto industrialmente minimo» su Fca. Nonostante il gruppo abbia la sede a Londra, «per noi non cambia niente», ha aggiunto. Il responsabile di Ford in Europa Jim Farley, invece, ha mandato una lettera a tutti i dipendenti dell’Isola chiedendogli di votare “no” e ha chiarito che «l’uscita porterebbe a un significativo deterioramento delle condizioni di business e del commercio che potrebbe avere un impatto negativo sugli investimenti futuri». I giapponesi sono stati più discreti, ma per le 1300 aziende nipponiche, che, come Toyota, hanno investito complessivamente 59 miliardi di sterline e impiegano 140 mila persone, ha parlato il premier Shinzo Abe, che ha detto, semplicemente, che il Paese sarebbe meno “attraente”. 



Il francese Carlos Ghosn, il ceo di Nissan e Renault che protegge un investimento di 3 miliardi di sterline e 8 mila dipendenti, ha cercato di essere diplomatico. Ma senza riuscirci troppo: «Remain», ha detto già nel febbraio scorso, «è la cosa più logica per il lavoro, il commercio e i costi. Ovviamente vogliamo che l’impianto Nissan e il centro di ingegneria restino il più competitivi possibile e non ci sono ripensamenti sugli investimenti già programmati». L’indiana Tata, che controlla Jaguar e Renault, non ci risulta abbia preso una seppur minima posizione, mentre per Bmw ha parlato l’unico membro inglese del consiglio d’amministrazione, Ian Robertson. «Il Regno Unito» ha detto, prendendola un po’ alla lontana, «è una prospera economia, ma se s’immagina senza il flusso di manodopera dall’Ue sono fermamente convinto che l’economia britannica non sarebbe forte e in forma com’è. Se si guarda agli investimenti nel settore automobilistico nel Regno Unito – sia quelli tedeschi, che quelli americani, giapponesi e ultimamente indiani – la possibilità di far parte dell’Ue è stata un fattore determinante. Non è stato l’unico fattore, ma è stato importante». 



Insomma, le case automobilistiche, combattute tra la voglia di proteggere i propri investimenti e la necessità di non scendere in campo in una questione prettamente politica, non hanno il coraggio di dire apertamente che la Brexit sarebbe un vero disastro per l’industria delle quattro ruote, perché le auto prodotte in Gran Bretagna dovrebbero iniziare a pagare un dazio per essere esportate nell’Unione europea e questo finirebbe, nel breve periodo, per penalizzare i margini di guadagno e, alla lunga, per incidere negativamente sugli investimenti passati e futuri nel Paese. Non lo dicono i colossi, ma lo dice, senza paura, l’associazione che raggruppa le industrie, la componentistica e i commercianti del settore, Smmt, che ha quantificato in 100 miliardi di sterline la perdita del comparto in caso di uscita dell’Inghilterra dall’Unione europea. 



Se il 23 giugno al referendum dovesse prevalere la scelta di abbandonare l’Unione europea, i veicoli prodotti in Inghilterra ed esportati verso l’Ue potrebbero dover sopportare un dazio del 10 per cento e i componenti del 2,5 per cento, ha detto Michael Hawes, ceo di Smmt in un’intervista di qualche giorno fa. «Ciò significa che un impianto inglese dovrebbe riuscire a recuperare il 10 per cento di efficienza in più rispetto a oggi. Cosa molto difficile da realizzare perché si tratta di impianti già molto efficienti. La fabbrica Nissan di Sunderland, ad esempio, è probabilmente l’impianto più efficiente in Europa, ma deve competere con gli altri impianti nell’Ue per ottenere il prossimo modello da produrre e il dazio non la favorirà certo», ha detto Hawes, aggiungendo come sia improbabile il rapido raggiungimento di un accordo di scambio con l’Europa, visto che sicuramente bisognerebbe fare i conti con le pressioni dei governi di quei Paesi europei dove sono localizzate le fabbriche dello stesso costruttore concorrenti con quelle inglesi.