Magneti Marelli passerà di mano. Magari non sarà adesso o magari non sarà Samsung a comprarla, ma è certo che, prima o poi, il fornitore di tecnologia automotive del gruppo Fca (89 stabilimenti nel mondo, 12 centri di ricerca, oltre 40 mila dipendenti e 7,3 miliardi di fatturato) cambierà padrone. Nessun costruttore nel settore auto controlla un fornitore di queste dimensioni e quasi mai portare una casacca così caratterizzata è un vantaggio quando si deve trattare anche con i concorrenti di Fca. Per questo una vendita è nell’ordine delle cose, specie se la contropartita per il gruppo anglo-italo-olandese-americano sono 3 miliardi di euro con i quali investire o ridurre un indebitamento non leggero.
Ma se Magneti Marelli (o una gran parte di essa, vedremo…) verrà venduta sarà l’ultimo passo, in ordine di tempo, non in assoluto, di un cambiamento che in dieci anni ha completamente trasformato quella che una volta chiamavamo Fiat. Bastano solo un paio di numeri per comprendere la trasfigurazione economica dell’azienda guidata allora da un molto più giovane Sergio Marchionne che in una foto d’epoca, pubblicata sul bilancio, sfoggiava addirittura giacca e cravatta.
Il gruppo Fiat nel 2005 fatturava 48,5 miliardi di euro e aveva 173 mila dipendenti, ma comprendeva anche le macchine per l’agricoltura, i camion di Iveco e Ferrari. Oggi, o meglio alla fine del 2015, Fca Group fatturava più del doppio (110,6 miliardi di euro) e aveva 238 mila collaboratori. Se si considera un perimetro simile al 2005 e, quindi, a questi numeri si sommano quelli della Cnh Industrial, che raggruppa i mezzi pesanti, scorporata e quotata nel 2013, le somme arrivano a oltre 135 miliardi di euro di fatturato 303 mila dipendenti.
Alla fine del 2005 la Fabbrica italiana automobili Torino veniva da 17 trimestri consecutivi di perdite e aveva in produzione, oltre a Fiat, solo Lancia, Alfa Romeo, Maserati e Ferrari. Le auto vendute nel mondo erano 1,7 milioni, e per mondo si intendeva quasi esclusivamente l’Europa, con l’Italia che rappresentava circa un terzo delle vendite totali, e il Brasile. Oggi il Brasile rimane uno dei mercati di riferimento per il Gruppo, ma non è più fondamentale. Nel 2015 le vendite hanno toccato quota 4,7 milioni, e grazie soprattutto al marchio Jeep sono davvero mondiali (Asia quasi esclusa). I marchi di automobili sono diventati nove, si incomincia a vedere un primo rilancio di Alfa Romeo e soprattutto le vendite negli Usa continuano a crescere e in Europa fanno bene un po’ dappertutto, segno di un mix prodotto-qualità-prezzo per lo meno azzeccato.
Nel 2005 il presidente di Fiat Group e di Ferrari era Luca Cordero di Montezemolo e John Elkann era un vicepresidente con meno di 30 anni e ben poca esperienza. Si racconta che Marchionne mangiasse, solo, in pizzeria con l’autista. Ma proprio in quell’anno riuscì a farsi pagare 1,56 miliardi di euro da General Motors per non comprare Fiat e con quei soldi, oltre a tappare alcuni buchi di bilancio, riuscì a investire sulla nuova 500, il modello che ha ridato fiato a tutto il Gruppo. Era l’anno del grande repulisti: si dice che licenziasse i manager in coppia per perdere meno tempo o che lo facesse in volo, salivi con lui in elicottero ed eri il responsabile di “xy”, mentre all’atterraggio eri solo un disoccupato.
Forse sono solo leggende. Sicuro è, invece, che in dieci anni il ceo di Fca (e di un sacco di altre aziende del gruppo) ha, prima, rimesso in linea di galleggiamento un’azienda che stavo morendo e lo ha fatto anche grazie ai soldi di un concorrente, poi, nel 2009 ha messo a segno il “colpo gobbo” di Chrysler, separato le attività dei mezzi pesanti dalle auto, portato in Borsa Ferrari nel 2015 e messo alla porta la quota che aveva in bilancio di Rcs Mediagroup pochi mesi fa.
In fatto di visione strategica finora non si può dire che ne abbia sbagliata una e, quasi sempre, ha dovuto realizzare le proprie idee avendo in tasca poco o niente. Se adesso Marchionne dovesse decidere di incassare 3 miliardi di euro per far uscire Magneti Marelli dal perimetro di Fca, qualcuno si straccerà le vesti ricordando che si tratta di un’azienda italiana nata a Milano nel 1919 (anche se ormai ha stabilimenti in cinque continenti), ma siamo certi che, con ogni probabilità, ha ragione Sergio.