Mary Barra a destra, come si conviene per una signora, formale e sorridente alla dentifricio americano; Sergio Marchionne a sinistra, col solito pullover che francamente non si può guardare (ma il suo ego monumentale ha bisogno di un distintivo). Al centro, tra loro, il deus-ex-machina del momento, Donald Trump. È questa la foto-chiave del vertice di ieri tra il neopresidente americano e i capi dei tre gruppi dell’auto americana. Trump era tra Barra e Marchionne per dividere o per unire? Favorirà la fusione Fca-GM che Marchionne invoca e Barra nega?



Considerando che la Barra è stata inclusa da Trump nel ristretto circolo dei suoi consiglieri economici, si direbbe “per dividere”. Considerando, invece, che la Barra era stata indicata come una possibile vicepresidente di un’eventuale Hillary Clinton al vertice della Casa Bianca, si direbbe il contrario. Il capo di Fca l’ha detto in tutti i modi: il futuro dell’auto è talmente impegnativo che obbligherà tutti a nuove fusioni. “Se guardiamo quanto tutti stiamo spendendo inutilmente, la somma è… quasi oscena”, ha rincarato. Mary Barra lo ha liquidato senza giri di parole, dopo aver ricevuto un anno e mezzo fa una mail con una formale, anche se ancora sommaria, proposta di accordo.



Il difetto della proposta di Marchionne sta nella governance: non chiarisce chi comanderebbe sul gruppone unificato, e chiunque lo conosca sa che questo implica che intende comandare lui, oltretutto ancora abbastanza giovane (compirà 65 anni a giugno) per rilanciarsi come capo operativo di una nuova sfida, a dispetto delle implausibili e di fatto vaghe promesse di lasciare Fca al termine dell’attuale mandato. Ma la proposta contiene anche un secondo difetto: la proprietà dell’azienda post-fusione graviterebbe comunque in capo alla famiglia Agnelli, che avendo trasferito in Olanda la sede legale della holding, ne controlla oltre il 42% dei diritti di voto, e quindi se anche li diluisse al 20% resterebbe di gran lunga il maggior singolo azionista. 



È pensabile che la Casa Bianca dell'”America first”, dell'”America great again” possa accettare che la General Motors diventi non diciamo tricolore (perché tricolore non è più neanche la Fca), ma sicuramente “meno stelle e strisce”? No, è impensabile. Certo, il gruppo Fca potrebbe accampare i necessari “quarti di americanità”, ormai, visto che il grosso dei suoi investimenti fissi è in Nord America e comunque fuori Italia. Ma la testa è saldamente europea.

Infine, nel suo bizzarro narcisismo, Marchionne non ha mai lesinato al mondo superflue ma pubbliche manifestazioni di una sua visione politica indefinibile, ma comunque più di sinistra che di destra, per usare vecchi termini di riferimento. Da questa tendenza, il suo sviscerato endorsement a vantaggio del governo Renzi. Molti ricordano anche le plateali smorfie contro il Silvio Berlusconi dilagante dieci anni fa a Vicenza, alle Assise di Confindustria.

Marchionne per ora non ha avuto l’imprudenza di criticare direttamente Trump, dalle elezioni di novembre in qua, ma, per esempio, ha già sparato a zero sulle sue strategie protezionistiche: “Se cominciamo a mettere barriere allo scambio di merci, ciò potrebbe impattare anche sullo sviluppo degli stabilimenti Usa, come quello di Jefferson North o di Warren”, ha sibilato, per far capire al biondo inquilino della Casa Bianca che rincarando i costi commerciali delle produzioni extra-Usa ne risentiranno anche gli investimenti negli Usa, che è l’atteggiamento opposto a quello adottato da Ford e General Motors, che si sono precipitate a reinvestire negli Usa. E sempre Marchionne a proposito del miliardo di investimenti in più annunciato anche da Fca negli Stati Uniti ha tenuto a chiarire che si tratta di una partita decisa prima, che nessuno pensi di averlo indotto a posporre le sacre ragioni del capitale (il suo libro non s’intitola forse: “Confessioni di un drogato di capitale”?) a quelle della politica.

Non sono atteggiamenti propiziatori della benevolenza di Trump. Eppure, come anche i bambini stanno comprendendo in questi giorni, fin quando il presidente degli Stati Uniti gode del consenso popolare, ha un potere spaventoso al quale tutti gli allineano. Per calcolo, c’è da scommettere, lo farebbe anche Marchionne: ma basterà al manager italo-canadese allinearsi dopo e a malincuore alla linea della Casa Bianca per conquistarne il consenso? E potrà mai fondersi con un altro big dell’auto Usa senza l’ok dello Studio Ovale? Impensabile.

A vantaggio di Marchionne milita soltanto il fatto che, nel merito, ha ragione: disperdere su filoni paralleli gli stessi generi di investimenti in ricerca e sviluppo ha poco senso, se non in una logica di concorrenza commerciale che i fatti s’incaricheranno di dimostrare come controproducente. Le sfide dell’auto elettrica e dell’auto intelligente che si guida da sé sono terribilmente “capital-intensive”: richiedono quattrini a valanga. Ma tant’è, il nazionalismo presuppone in tutto il mondo – con l’eccezione dell’Italia, purtroppo – che il radicamento locale di una proprietà sia considerato un valore politico.