“Siamo impazziti? Forse sì!”. Così gli analisti di Evercore Isi, a fine novembre, si sono convertiti: da feroci critici di Fiat Chrysler (voto “sell”, prezzo previsto 6 euro) a entusiasti fans di Sergio Marchionne: buy a 10 euro. La follia ha pagato: il 6 gennaio il titolo Fca ha superato la soglia di 9,9 euro, sui massimi da aprile del 2015. Ma la corsa forse non è finita: un report di Mediobanca Securities, firmato da Massimo Vecchio, alza l’asticella del titolo a Outperform (dal precedente Neutral) obiettivo di prezzo a 12 euro dal precedente 7 euro, mentre Goldman Sachs passa da 9,9 a 16,5 euro. Non pesa sul giudizio il calo delle vendite sul mercato Usa: -10% a 192.519 unità, per la terza volta consecutiva in calo a doppia cifra, dopo oltre sei anni di aumenti mensili ininterrotti.
È il frutto di un cambio di strategia, spiega il gruppo: puntare meno sulle “flotte”, economicamente meno redditizie e il cui contributo è sceso del 34%, e aumentare l’impegno verso la clientela “retail”, più redditizia, che ha registrato un calo ben più modesto (-2%). E poi, senza dimenticare che il Nord America vale più del 90% dei profitti Fca, rincuorano sia la ripresa del mercato europeo che la ripresa delle immatricolazioni d’auto in Brasile: secondo banca Akros, il recupero è una lieta sorpresa, mentre il calo in Usa, peraltro inferiore alle previsione era già scontato.
Queste indicazioni spiegano molto, ma non tutto. Come si giustifica, ad esempio, il rialzo del titolo (+43%) dall’8 novembre, data della vittoria elettorale di Donald Trump? All’apparenza l’andamento del mercato è incomprensibile. Fiat Chrysler deve buona parte delle sue fortune alle decisioni di Barack Obama del 2009, quando il presidente è sceso in campo per tentare il salvataggio di Chrysler attraverso la carta Fiat, all’epoca non messa meglio della casa Usa sull’orlo della bancarotta. Ma allora la carta della ripresa doveva essere l’auto verde, ecologica e dai consumi contenuti. Al contrario, la riscossa ha coinciso con la rivincita dei veicoli più potenti e inquinanti: Fca ha investito centinaia di milioni di euro per comprare “crediti ecologici”, ovvero la licenza a inquinare nei prossimi anni. La filosofia di Fca, in un certo senso, ha anticipato la svolta dell’elettorato Usa.
La frenata sull’ecologia del neo presidente Usa può fare un gran bene a Fiat Chrysler, che avrebbe grosse difficoltà a rispondere alle richieste dell’Epa, l’ente antinquinamento Usa che ha già emesso più multe a carico del gruppo. Gli investimenti imposti dalla normativa possono rappresentare un peso insostenibile per il gruppo che ha chiuso il 2016 con un indebitamento industriale attorno a 6,7 miliardi. Lo stop ai programmi più impegnativi può essere una boccata d’ossigeno vitale decisiva. Non a caso Sergio Marchionne ha confidato ai suoi collaboratori di non essere affatto scontento della vittoria di Trump.
Il neo presidente ha messo nel mirino l’industria di Detroit per i suoi investimenti in Messico, particolarmente cari a Fiat Chrysler che ha deciso un anno fa di concentrare gli sforzi per la crescita della Jeep oltre il Rio Bravo. È un’offensiva più ideologica che economica, per il momento. La legge del 1974 cui si è appellato Trump per giustificare le minacce a Gm, rea di produrre l’utilitaria Cruze anche in Messico, può essere applicata solo contro gli Stati, non contro una singola azienda. Per quanto riguarda le possibili ritorsioni doganali, Trump potrebbe sollevare le clausole della nazione più favorita, con tariffe più elevate del 4%. Per un provvedimento più robusto, cioè un aumento dei dazi fino al 15%, la Casa Bianca dovrebbe adottare un provvedimento d’urgenza, con una durata massima di 100 giorni. Altre iniziative possono essere adottate solo con un complesso e incerto iter parlamentare. Una tassa sull’import del 35%, come ipotizzato dal neo presidente, potrebbe essere applicata solo dopo una profonda riforma del codice fiscale Usa.
Le pistole del Presidente, dunque, sono scariche. Ma sia Gm che le altre corporations le prendono sul serio. Il motivo? Il favore politico di cui gode il neo presidente che con la sua mossa anti-Gm e la resa senza condizioni di Ford che ha rinunciato a un investimento messicano pianificato da tempo si è tra l’altro guadagnato un ampio consenso presso il sindacato dell’auto, l’Uaw, uno dei pilastri del partito democratico. Inoltre, su un punto sono tutti d’accordo: Trump non è un ingenuo, semmai un giocatore di poker che finora si è mosso solo dopo aver valutato con attenzione (e qualche aiuto disinvolto, accusa la Cia) le carte in mano alla concorrenza.
In realtà, sostiene Doug Holtz-Eakin, già direttore dell’ufficio del bilancio del Congresso, oggi alla testa di American Action Forum di Washington (un centro lobbistico di destra), “il neo presidente – ha detto a Bloomberg – non ha lanciato un ultimatum, semmai ha aperto un negoziato”. Trump, consapevole del valore economico e psicologico dell’industria dell’auto, la vera bandiera di “America great again”, punta a un successo in grado di rafforzare la sua credibilità nei confronti dell’opinione pubblica, soprattutto in quegli Stati, Michigan in testa, che hanno permesso il sorpasso nei confronti dei democratici. L’industria dell’auto mira ad abbassare il salasso previsto dalle normative anti-inquinamento approvate in sede Epa, che vanno ad aggiungersi alle leggi adottate dagli Stati più severi, come la California. Per non parlare delle sfide future, tutte da decifrare: dall’accoglienza dell’auto a guida automatica all’avanzata del car sharing e le mille possibili evoluzioni che chiamano in causa l’attività dei regulators.
È presto per saperlo, ma la nuova situazione sembra aprire quegli spazi di azione per Marchionne che il secco no di Gm sembrava aver chiuso una volta per tutte. Il neo presidente non può che vedere con favore un consolidamento dell’industria americana per eccellenza. E per Marchionne un merger a stelle e strisce potrebbe essere l’apoteosi di una carriera leggendaria, degna dei grandi delle quattro ruote. Il tutto dopo aver riportato la produzione in Italia oltre un milione di “pezzi” e aver tracciato una rotta, oltre che per Ferrari, pure per Alfa e Maserati, marchi italiani votati a crescere soprattutto oltre Oceano.
“Siamo matti noi che ci crediamo?”. Forse sì, ma chissà.