Tanto tuonò che piovve. Alla fine, infatti, il dipartimento di giustizia Usa, per conto dell’Agenzia per la protezione ambientale (Epa), ha presentato una causa civile contro Fiat Chrysler (Fca) accusandola di aver utilizzato un software che consente emissioni più alte degli standard in 104.000 veicoli diesel vendute negli Usa. Si tratta dei modelli Jeep Grand Cherokee e Ram 1500 prodotti e venduti negli Stati Uniti nel 2014, 2015 e 2016 con motori diesel a tre litri. A prima vista sembra il ripetersi di una storia già vista che vide protagonista in negativo il gruppo Volkswagen che, poi, fu costretto a pagare tra cause civili e penali oltre 20 miliardi di dollari. Ma le due storie, quella del gruppo tedesco e di Fca, si differenziano in almeno tre punti.



Il primo, sicuramente il meno importante, è il numero dei veicoli coinvolti: nel caso di Volkswagen si trattava di 11 milioni di auto, poco meno di mezzo milione delle quali vendute negli Usa. Per Fca la cifra è decisamente inferiore: poco più di un quinto. La seconda differenza tra i due casi è l’accusa fatta dall’Epa: l’ente americano ha accusato Fca di aver installato, e citiamo testualmente, “senza comunicarlo, un software di gestione delle emissioni nei modelli Jeep Grand Cherokee e Ram 1500”.



I tecnici che facevano i controlli non furono avvertiti dell’esistenza del software durante le procedure per ottenere le certificazioni e per questo i sistemi di controllo delle emissioni dei veicoli hanno potuto funzionare, e citiamo ancora testualmente, “diversamente, e meno efficacemente, durante certe condizioni di guida normali rispetto ai test federali sulle emissioni, provocando un aumento delle emissioni di agenti inquinanti nocivi”.

Insomma, durante alcune condizioni di guida, e sottolineiamo alcune, i sistemi di controllo delle emissioni funzionavano in maniera diversa rispetto a quelli certificati dall’Epa grazie a un software che non era stato comunicato all’Epa. È ben diverso dal dire che c’era un software che riconosceva le procedure dei test sulle emissioni e solo in quel caso settava il motore in modo tale che potesse passarli a pieni voti, come era il caso di Volkswagen.



Ci sono questioni tecniche legate alle centraline elettroniche che rendono l’accusa opinabile. Tutti sanno che le condizioni atmosferiche condizionano le emissioni delle auto, ma anche la richiesta da parte del guidato al motore di accelerazioni o potenze particolari cambiano i consumi di carburante e le emissioni di sostanze nocive. Per questo, e veniamo alla terza differenza, la più sostanziale, al contrario di Volkswagen, Fca non ha mai ammesso di aver voluto aggirare i test dell’Epa.

“Se ci sarà un processo Fca si difenderà con forza, particolarmente contro ogni accusa che l’azienda abbia deliberatamente installato congegni ingannevoli per aggirare i test”, ha spiegato una nota del Gruppo italo-americano. “Fca collabora da mesi con la US Environmental Protection Agency (Epa) e il California Air Resources Board (Carb). Abbiamo sviluppato software di controllo delle emissioni aggiornati e riteniamo che le preoccupazioni delle due agenzie concernenti le calibrazioni dei veicoli sarebbero così risolte”. Nessuna confessione, anzi si usa la parola “preoccupazioni”, senza considerarla neanche un’accusa provata.

Come andrà a finire? È difficile dirlo perché la politica ci metterà sicuramente lo zampino e non sappiamo se per aiutare o affossare le velleità dell’Epa. Di certo, ci sarà molto lavoro per gli avvocati e sarà una vicenda lunga. Come lunghi saranno gli strascichi del dieselgate anche in Europa, dove la cronaca del settore negli ultimi giorni assomiglia a un bollettino di guerra tra le autorità e le case automobilistiche. Secondo il quotidiano francese Le Monde, il Gruppo Volkswagen rischia una multa di 19,7 miliardi di euro per i danni arrecati dal dieselgate in Francia, Paese dove sono sotto inchiesta anche Renault, Peugeot-Citroen e Fiat-Chrysler.

In Germania, invece, 230 uomini della polizia anticrimine e 23 magistrati hanno perquisito undici edifici di Daimler, l’azienda che costruisce Mercedes, nel Baden-Wuerttemberg, in Bassa Sassonia e a Berlino. Un blitz, nell’ambito di un’inchiesta avviata a marzo dalla Procura di Stoccarda, che ricorda quelli contro il terrorismo. In una nota Daimler ha spiegato di cooperare “completamente” con gli inquirenti, ma certo lo sta facendo a denti stretti pensando, come molti, che uno spiegamento di forze del genere avrebbe meritato un obiettivo migliore.