Il giallo dell’estate 2017 ieri ha avuto una nuova puntata quando le principali agenzie hanno rilanciato le dichiarazioni della società cinese Great Wall che svelava di essere interessata a comprare Fiat Chrysler e in particolare il marchio Jeep. Nel corso della giornata arrivava la precisazione di Fiat che smentiva di essere stata approcciata da Great Wall e confermava l’impegno per il raggiungimento degli obiettivi del piano 2014-2018. Ieri, come settimana scorsa, il mercato decideva che al fondo dei rumour ci doveva essere qualcosa di sostanziale e infatti il titolo chiudeva con un rialzo del 6,9%.
Più passa il tempo, più si accavallano i rumour e le ipotesi, più diventa necessario avere presente il quadro generale e una visione di lungo periodo. Nessuna società automobilistica al mondo negli ultimi dieci anni è stata interessata da così tanti eventi straordinari come Fiat. I punti fermi però sono pochi e non sono mai cambiati. Il primo è la convinzione che il business auto sia difficile, strutturalmente ipercompetitivo, poco redditizio e alla viglia dia una probabile fase di rottura; il secondo è che la scelta vincente è quella di aumentare le dimensioni; il terzo è che Fiat non vuole essere un soggetto aggregatore e che i suoi azionisti non vogliono rimanere coinvolti con un ruolo predominante nel futuro dell’auto dei prossimi dieci anni.
Questi sono i punti fermi che prima hanno probabilmente aperto una fase di discussione con Volkswagen e poi, sicuramente, con General Motors al cui amministratore delegato venivano recapitate lettere e proposte di fusione dall’omologo in Fiat. In entrambi i casi si sarebbero generate due conseguenze: Gli Agnelli/Elkann avrebbero trasformato una partecipazione che li qualificava come “imprenditori” con implicazioni dirette per il controllo della società industriale a una partecipazione finanziaria maneggiabile molto più facilmente; il secondo è che Fiat Chrysler sarebbe stata inglobata da un soggetto grande diverse volte la sua dimensione.
Quello a cui abbiamo assistito negli ultimi anni e i rumour sul futuro della società sono del tutto coerenti con queste premesse. In quest’ottica chi gestisce Fiat deve massimizzare il valore della società il più possibile e questo processo non può che passare per una vendita a pezzi in cui i singoli componenti vengono separati perché così è più facile farne emergere il valore. L’esempio più clamoroso è la quotazione di Ferrari, prima inglobata in Fiat e nascosta tra le 500L e le Panda e poi messa in vetrina con un prevedibilissimo exploit borsistico. Guarda caso oggi si parla di separazione di Jeep, di Alfa Romeo e/o Maserati, di cessione di Comau o Magneti Marelli. Gli Agnelli vogliono uscire da un business in cui non credono o che ritengono troppo difficile e complicato nei prossimi dieci anni; in quest’ottica bisogna uscire alle migliori condizioni, prezzo incluso, possibili.
Torniamo al rumour cinese. Siamo scettici non perché sia da escludere l’interesse cinese, che anzi probabilmente esiste davvero ed è forte, ma perché è molto difficile se non impossibile che il “sistema Paese” americano possa accettare che una società cinese, un Paese in cui il confine tra Stato e privato sembra “labile”, possa comprare il terzo produttore auto americano che è stato praticamente regalato a Fiat meno di dieci anni fa; stesso discorso per il suo marchio migliore Jeep. In una fase, oltre tutto, in cui si parla di guerra commerciale, per ora solo quella, tra Cina e Stati Uniti. Forse grazie a questi rumour si riaccenderà un interesse in General Motors o Ford. Questi sono dettagli però, perché l’importante è consegnare l’auto Fiat a qualcun altro al massimo valore possibile.
Le considerazioni finali non possono che essere amare. Tutti gli altri grandi produttori auto, spinti dai loro sistemi Paesi, vogliono rimanere protagonisti dell’industria nel lungo periodo; un’industria che ancora oggi è il maggiore datore di lavoro globale e che se gestita bene, vedi i casi tedeschi, produce ricchezze colossali. Tutti gli altri grandi sistemi Paesi vogliono avere un campione, o quanto meno un piede e un braccio, nell’industria auto perché si occupano decine di migliaia di persone e perché ci sono investimenti miliardari per tutto il sistema. Noi italiani il campione non ce l’abbiamo più e il treno l’abbiamo ormai perso: mentre i giornali facevano i titoloni sulle conquiste americane, Fiat cambiava sede legale, sede fiscale e mercato di quotazione portandole fuori dall’Italia.
Non servivano doti paranormali per capire cosa stava succedendo e cosa si voleva raggiungere: una vendita che per riuscire e riuscire bene richiede, dato l’oggetto in questione pesante politicamente e industrialmente, tanta preparazione e pazienza. L’unica cosa che si deve aggiungere oggi è che non era l’unica soluzione possibile per nessuno. Volkswagen non vende Ducati, che non è neanche “core business”, nemmeno dopo una multa colossale. Chi sbaglia? Chi è più furbo?