“Il giudice di Lipsia che mette la salute davanti all’industria” titola oggi il Corriere della sera, per dar conto della decisione tedesca di autorizzare le città a mettere al bando le auto diesel fino a Euro 6 per ridurre le emissioni di diossido di azoto. Ma siamo sicuri che decisioni come queste (che Roma potrebbe adottare dal 2024) siano sgradite all’industria? Al contrario: a guardare la vicenda con un po’ di pensiero laterale, se c’è un movimento di pensiero “keynesiano”, cioè sostanzialmente utile a promuovere se non indurre uno sviluppo economico altrimenti tutt’altro che spontaneo, è proprio l’ambientalismo. Il che non toglie valore sostanziale all’ambientalismo stesso – tutti vogliamo un mondo più pulito -, ma ne spiega meglio il grande, e un po’ sospetto, successo di critica da parte di chi, in teoria, dovrebbe pagarne i costi.
Riflettiamoci. Ai fini dell’inquinamento atmosferico, e quindi del riscaldamento globale da effetto serra, è abbastanza palese che proibire qualsiasi agente inquinante attivo solo in un territorio, per giunta piccolo come quello di una città, è perfettamente inutile: l’atmosfera non ha confini, e uno scarico inquinante a Lodi non chiede alcun timbro burocratico per fluttuare liberamente fino a Milano e oltre. Dunque o assumiamo che la decisione (con cui l’Alta corte di Lipsia ha appunto autorizzato i divieti locali che le amministrazioni cittadine potranno imporre alla circolazione delle auto diesel) sia una sentenza contro la puzza, perché effettivamente sì, i diesel fanno puzza; ma allora – come dire – la sentenza avrebbe un senso un po’ minimale. Oppure prendiamo per buono che essa persegua un obiettivo più nobile, cioè la riduzione delle emissioni inquinanti, e allora la dobbiamo rileggere entro quel movimento globale di pensiero che sta dicendo no, no e no – a ogni costo – alle auto inquinanti. E si torna alla domanda d’apertura: ma siamo sicuri che questo nuoccia ai produttori?
Al contrario: giova. In parte grazie al boom del digitale – e alle varie incarnazioni dell’auto a guida automatica, ancora in embrione ma già commercialmente attraentissima -, ma soprattutto grazie alle istanze ambientaliste, l’industria dell’auto, che fino a tre o quattro anni fa sembrava incastrata in una ridondanza di proposte-fotocopia, incapaci di stimolare un ricambio accelerato di modelli e quindi di acquisti, sta trovando un inedito impulso al rinnovamento. In parole povere: un po’ come accadde negli anni Ottanta per gli elettrodomestici bianchi, le automobili stavano diventando prodotti indifferenziati. Prestazioni più o meno uguali, fogge e design equivalenti, prezzi allineati, durata lunga se non lunghissima. Un mercato molto concorrenziale, dove quelle diavolerie tipiche dell’industria digitale di oggi – come l’obsolescenza programmata dei cellulari, che ci costringe tutti a cambiarli ogni due anni – non erano arrivate. Si rischiava l’inedia. Invece, et-voilà: le polveri sottili, e la psicosi collettiva nei loro confronti, sta accelerando la ricerca dell’auto verde, e sempre più verde.
Quanto questo c’entri con una vera, e globale, politica ambientalista protesa a ripulire il mondo dalle emissioni dannose, è tutto da vedere, ma a naso c’entra poco. Paesi inquinanti per definizione come la Cina – e non solo la Cina – continuano a vomitare valanghe di liquami gassosi nell’atmosfera, infischiandosene di qualunque protocollo. Trump si fa beffe degli accordi di Parigi e spinge sui combustibili fossili. Il buco nell’ozono, dunque, non accenna a stringersi. Ma intanto siamo tutti ossessionati dalle emissioni dell’auto di famiglia. E appena possiamo ce la cambiamo con un modello che inquini meno: ibrida, elettrica, a gas. E in fondo ben venga: significa produzione, occupazione, denaro che circola, benessere.
È o non è molto keynesiano, tutto questo? Il grande economista aveva teorizzato paradossalmente quanto potesse essere utile agli equilibri di un’economia sana perfino che lo Stato finanziasse lo scavo di buche nella terra fini a se stesse, pur di far girare il denaro, piuttosto che tenere immobili e improduttive le risorse finanziarie pubbliche. Ebbene, oggi di veramente keynesiano al mondo c’è rimasto solo un altro buco: quello nell’ozono.