L’anno prossimo il marchio Fiat compirà 120 anni. Li dimostra tutti, purtroppo: modelli vecchi, produzioni ridotte, operai in cassa integrazione. E soprattutto poche idee sul futuro e cassetti mezzi vuoti. Sergio Marchionne, l’ad del Gruppo e di un sacco di altre cose, per anni ha fatto miracoli continuando a organizzare sontuosi pranzi di nozze per gli azionisti con i proverbiali fichi secchi, ma ora, continuando con le metafore, l’acqua è quasi finita e la papera non galleggia. Vivaddio, tengono in piedi la baracca Jeep e gli altri marchi premium, ma gli ultimi dati di vendita in Europa (-7,3% per Fiat e -35,5% per Lancia nei primi due mesi del 2018 rispetto allo stesso periodo dello scorso anno) annunciano tempi ancora più duri per i brand del mass market.



E non potrebbe essere altrimenti. La 500 ha oltre dieci anni sulle spalle e si parla di una nuova versione solo nel 2019, la Panda ne compie sette, la Punto sei. La Tipo, l’ultimo vero lancio del marchio torinese prodotta e pensata dalla joint venture con la turca Tofas, ne ha già tre sulle spalle e per stessa ammissione dei vertici del Lingotto è arrivata in Europa ed è stata venduta a prezzi abbordabili solo perché è prodotta in Turchia. Parlare di Lancia, poi, fa solo tristezza perché si tratta di un marchio storico quasi completamente abbandonato. Ora ha in listino una sola auto, la Ypsilon, nella stessa versione lanciata sette anni fa. Considerate l’età delle vetture bisogna solo complimentarsi con chi ancora riesce a fare i numeri di vendita che sta facendo perché più contare solo sulla leva del prezzo e sulla fedeltà del cliente per concludere il contratto, mentre ha di fronte concorrenti che sfornano nuovi modelli a ritmi infernali. 



L’impressione che si ha guardando Fca è che ormai ci siano dentro tre aziende diverse che viaggiano su binari paralleli a velocità differenti. La prima è quella delle derelitte utilitarie, un trenino che si muove lentamente perché va ancora a carbone e sta finendo il combustibile. La seconda è quella dei marchi americani Ram, Dodge, Chrysler e Jeep con quest’ultimo marchio che traina tutti gli altri ridotti a semplici vagoni che fanno fatica a stargli dietro. E la terza quella dei marchi italiani premium di Maserati e Alfa Romeo che pur avendo bisogno di ben altro carburante (investimenti) si stanno muovendo con una certa agilità. Insomma, nel costruttore italo-americano che ci sono figli e figliastri. Una situazione generata dalla mancanza cronica di denaro per effettuare gli investimenti necessari per stare al passo con i concorrenti che fa allocare le risorse in maniera selettiva, ma anche il risultato di una strategia che, prendendosi molti rischi, vuole puntare su segmenti di auto che assicurano meno veicoli venduti, ma margini di guadagno più alti.



L’operazione sta riuscendo completamente con Jeep, grazie alla potenza del marchio e al boom dei suv, e in misura minore con Maserati e Alfa Romeo che si scontrano con i fortissimi concorrenti del segmento premium. E le utilitarie? I margini sono bassi, anche se gli investimenti necessari per metterle in produzione sono già stati ampiamente ripagati, e il mercato nei prossimi anni diventerà tempre più difficile perché con ogni probabilità i marchi cinesi arriveranno in Europa con vetture che non hanno niente da invidiare alle nostre. Con loro fare una guerra dei prezzi sarà impossibile ed è forse meglio allearsi che combatterli. Gli approcci prima di Great Wall e poi di Geely, entrambi costruttori made in China, sono stati visti da molti operatori in questa ottica. Ma è impensabile che la parte americana di Fca possa andare in mani cinesi. E, forse, le tre velocità a cui vanno i diversi marchi del Lingotto sono solo prodromiche a un futuro “spezzatino” che veda la parte americana andare a General Motors (senza Sergio Marchionne e con la spinta del presidente Donald Trump), i marchi mass market italiani, con il côté turco e brasiliano, a qualcuno che arriva dall’Oriente e ha bisogno di un brand conosciuto.

E Alfa Romeo e Maserati? Potrebbero restare in Italia dove stanno, magari creando un’unica azienda o qualche forma di collaborazione con Ferrari, andare in Germania o finire in India a fare il paio con Jaguar e Land Rovere nel portafoglio di Tata. Sono solo ipotesi, ma non del tutto peregrine.