L’ultimo giro d’orologio ha preso il via ieri. Sergio Marchionne, alla testa di Fiat dal 2004, ha guidato ieri le ultime assemblee di Fca e Cnh Industrial prima che vengano designati i manager che lo sostituiranno tra un anno esatto (o forse prima). Una scelta che lui stesso ha definito “difficile”. “Ma stiamo lavorando – ha assicurato il presidente di Exor John Philip Elkann – per fare in modo che il prossimo anno ci sia la migliore successione possibile”. “Quello che vedo m’incoraggia – ha aggiunto Marchionne -, ma è difficile il momento, difficile da trovare rispetto al 2004. Quando sono arrivato in Fca ero il quinto ceo in 24 mesi. Dobbiamo evitare soluzioni di questo tipo”. Insomma, Marchionne si prepara a lasciare, ma solo in parte: il piano che l’azienda presenterà il prossimo giugno sarà opera sua. Il successore, probabile che sia Mike Manley (l’uomo che ha guidato Jeep da 380 mila a 1,4 milioni di pezzi venduto ogni anno), o Richard Palmer, il direttore finanziario che più di tutti ha il quadro d’assieme del gruppo, o (più difficile) Alfredo Altavilla, si troverà a eseguire un compito già tracciato e che Marchionne, comunque, seguirà da vicino nel board di Exor.
Non è ancora il caso, insomma, di fare un bilancio di un’impresa ancora in corso. Ma qualcosa, o più di qualcosa, sta per cambiare. Si sta per chiudere, con grande successo, un ciclo che ha visto Fiat integrarsi con un grande gruppo d’oltreoceano, impresa che sembrava impossibile alla luce delle difficoltà nel 2009, anno d’inizio dell’avventura. La casa torinese, parente povero del mondo a quattro ruote già data per spacciata, chiuderà il 2018 con ricavi netti pari a circa 125 miliardi di euro, un ebit adjusted superiore a 8,7 miliardi di euro, un utile netto adjusted di circa 5 miliardi di euro e un cash netto industriale di quasi 4 miliardi di euro a fine anno, rimuovendo il tallone d’Achille del debito, il principale ostacolo finanziario per un merger con un eventuale partner.
Ma, una volta archiviata con successo l’impresa di trasformare il simbolo della vecchia industria italiana del Novecento in un’azienda globale, si profilano nuove sfide ancor più impegnative, vuoi sul piano tecnologico che degli enti regolatori, dalla California alla Cina decisa a diventare il leader assoluto dell’auto elettrica e, presto, dell’idrogeno. In questo contesto, il gruppo italo-americano si sta ritagliando uno spazio per il futuro muovendo nella logica delle alleanze settoriali come accadrà per Magneti Marelli dopo lo scorporo o in Comau. Anche Cnh sembra avviata sulla strada dello spezzatino: Iveco, troppo piccola per competere da sola nel camion pesanti, dovrà procurarsi un partner, scelta obbligata perché in cassa non esistono i fondi per una grande acquisizione che, comunque, non è nel dna di Marchionne, venditore accorto mai prodigo o spendaccione.
In questo contesto l’Italia è ormai solo una parte di un gruppo con vocazione e dimensioni internazionali, che ha ormai reciso i vincoli più ingombranti con il Bel Paese, eredità della personalità magnetica e irripetibile dell’Avvocato. È stata questa una delle missioni di Sergio Marchionne che ha lavorato, con successo, per rimuovere quello che lui ha definito “il rapporto complesso tra la Fiat e l’Italia”. La nomina del suo successore, che quasi certamente non sarà italiano, segnerà l’ultima tappa del distacco. A differenza di quel che è avvenuto in Germania o in Francia si è spezzato il cordone ombelicale che legava l’industria di massa alla comunità nazionale. Non è un dramma, perché ha resistito il polo del lusso attorno a Ferrari e a poche altre eccellenze, mentre medie e piccole industrie, specie nel Nord-Est, hanno saputo agganciarsi ai produttori tedeschi (e in chiave minore lo stesso è accaduto con i francesi nel Nord-Ovest).
Ma il sistema Fiat Chrysler, pur ridimensionato, è una presenza strategica insostituibile per il Mezzogiorno, oltre che per la bilancia commerciale, visto l’export di modelli verso il continente americano. E questo spiega la preoccupazione con cui il sindacato che più ha collaborato con lealtà alla ripresa produttiva di Pomigliano e Melfi segue le nuvole che si addensano sull’azienda in Italia in calo di vendite e di investimenti in contrasto con i successi sul listino di Piazza Affari. “L’equilibrio finanziario, è importante perché a questo è legata la capacità d’investire, ma per noi è indispensabile dare continuità e utilizzare le risorse prodotte per completare gli investimenti e migliorare nella gamma di offerta, nelle tipologie delle nuove motorizzazioni ibride e elettriche e spingendo sulla nuova mobilità”, ha detto Ferdinando Uliano, Segretario nazionale di Fim-Cisl, intervenendo ieri sul sito Firstonline sul dossier Fca, nel giorno delle assemblee di Cnh, Fca e Ferrari. “L’effetto sull’occupazione – ha evidenziato Uliano – non va nella direzione che tutti auspicavamo con il completamento del piano 2014-2018, cioè l’azzeramento dell’uso degli ammortizzatori sociali negli stabilimenti italiani possibile solo con l’esecuzione degli investimenti necessari per il lancio delle già previste per l’ultimo periodo del piano industriale 2014-2018”.
Di qui l’importanza del nuovo piano strategico che sarà presentato il 1° giugno, l’eredità che Marchionne lascerà al suo successore. Nella speranza, dice Uliano, che tutto non si riduca agli annunci e faccia ripartire investimenti e nuovi prodotti partendo dalle priorità occupazionali che abbiamo; dal polo produttivo di Torino, Pomigliano d’Arco, Melfi, Modena fino all’ultimo stabilimento italiano”.