Sono passati due anni e nove mesi dallo scoppio dello scandalo Dieselgate e, per la prima volta, viene ufficialmente indagato dalla magistratura tedesca Rupert Stadler, ceo di Audi, uno dei manager di punta del Gruppo Volkswagen e dell’intera industria tedesca.
Nessuno nel settore se ne stupisce, perché l’ipotesi di un suo possibile coinvolgimento nelle indagini circolava da tempo, e sono in molti i dirigenti ed ex manager alle sue dipendenze coinvolti nelle indagini. Il manager bavarese, 55 anni, è uno dei più longevi ai vertici del gruppo Volkswagen, che frequenta da una quindici d’anni, e guida l’azienda automobilistica dei quattro anelli dal lontano 2010.
Il suo nome va ad aggiungersi a quello di decine di manager di medio livello del gruppo automobilistico indagati, accusati e in due casi persino condannati dai tribunali americani. I loro nomi non dicono niente a nessuno perché nessuno o quasi li conosceva. Quasi tutti sono ormai ex dipendenti del gruppo, che in alcuni casi sono liberi ma indagati in Germania, magari con sul groppone un mandato di cattura internazionale, in altri in carcere.
Sono finiti dietro le sbarre un dirigente di Porsche, capo dell’ufficio di progettazione dei motori, Jörg Kerner; il capo dell’ufficio ambiente del gruppo in America, Oliver Schmidt, arrestato dall’Fbi a gennaio del 2017 e già condannato a sette anni di carcere; James Robert Liang, ingegnere di origini indonesiane che collaborò alla creazione del software per alterare le emissioni, condannato a 40 mesi di carcere negli Stati Uniti; ma anche l’ingegnere italiano Giovanni Zaccheo Pamio, scarcerato a novembre in Germania, su cui pende però, come in altri cinque casi che riguardano collaboratori del Gruppo Volkswagen, una richiesta di estradizione da parte della giustizia americana, per associazione a delinquere in truffa e violazione delle leggi ambientali.
Gli unici due pezzi grossi presi nella rete degli inquirenti sono l’ex amministratore delegato del Gruppo Volkswagen, Martin Winterkorn, che un mese fa è stato rinviato a giudizio con l’accusa di frode dalla corte federale di Detroit (davanti alla quale con ogni probabilità non vorrà presentarsi, preferendo godersi la sua pensione di 3mila euro al giorno), e Wolfgang Hatz, ritenuto uno dei fedelissimi di Winterkorn, arrestato in Germania. Hatz, messo a riposo dallo scoppio dello scandalo e dimissionario nel 2016, aveva guidato la divisione sviluppo motori di Audi fra il 2001 ed il 2007 prima di venire destinato allo stesso ruolo per l’intero gruppo e nel 2011 era stato spostato alla direzione della Ricerca e Sviluppo di Porsche.
Le indagini ufficiali sull’operato di Stadler rappresentano, però, una novità importante, perché vanno al cuore del problema. Stabilito che le auto diesel del gruppo avevano un software che riconosceva i test delle emissioni e le riduceva fraudolentemente, nessuno ha ancora accertato se i massimi vertici, il Consiglio di sorveglianza degli azionisti e quello dei massimi dirigenti del Gruppo, di Audi, di Porsche fossero a conoscenza della truffa. Il top management lo ha sempre negato con forza, ma chiunque abbia avuto a che fare con le pratiche e i controlli di un’azienda multinazionale tedesca non può non nutrire forti dubbi su una macchinazione dai livelli intermedi della società ordita ai danni dell’azienda e dei clienti. Se fosse vero, il top management del Gruppo, sarebbe colpevole di incapacità e di insipienza per aver permesso a dei dipendenti di agire indisturbati per anni truccando dati di laboratorio e vetture e provocando danni non ancora interamente immaginabili.
Finora il conto presentato a Volkswagen è di una trentina di miliardi di euro, ma non è finita, e nella lista non sono compresi gli sforzi che dovranno essere profusi per anni per recuperare un’immagine pulita. Gli anni di galera o le multe, poi, non sono niente rispetto ai danni provocati a tutta l’industria automobilistica mondiale e a un motore, quello diesel, che se non “truccato” è ancora adesso la migliore scelta ambientale ed economica possibile. Ormai quello del gasolio pulito è una battaglia persa e a poco servono interventi come quello del Cnr che, dati alla mano, lo difendono.
Tutta colpa del Dieselgate, che è iniziato con una menzogna e finisce con una marea di bugie.